Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 30 gennaio 2022.
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Il profeta, un personaggio scomodo
Ci sono tribolazioni che giungono improvvise e non volute, ma ce ne sono altre che sono la conseguenza di scelte fatte. Il prezzo da pagare per chi accetta di svolgere la missione difficile e poco gratificante del profeta è la persecuzione.
Anche le persone più simpatiche, quando si fanno interpreti del messaggio del Cielo, per quanto possa sembrare strano, possono diventare irritanti, fastidiose, insopportabili e venire emarginate.
Il profeta non è mai osannato a lungo dalle folle e meno ancora da chi detiene il potere, sia politico che religioso.
In un primo momento può anche essere apprezzato per la sua preparazione, intelligenza, integrità morale, ma presto è guardato con sospetto, osteggiato e perseguitato.
Gesù non ha illuso i suoi discepoli, non ha promesso una vita facile, non ha assicurato l’approvazione ed il consenso degli uomini.
Con insistenza ha ripetuto che l’adesione a lui avrebbe comportato persecuzioni: “E’ sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,24-25). “Anzi – ha aggiunto – verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16,2).
Rievocando con rammarico il suo passato, Paolo riconoscerà: “Io non sono neppure degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio” (1 Cor 15,9). Tuttavia dichiarerà anche di averlo fatto “mosso da santo zelo” (Fil 3,6), convinto di difendere Dio e la vera religione.
Potrebbe accadere di nuovo oggi.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza”.
Prima Lettura (Ger 1,4-5.17-19)
Nei giorni del re Giosia 4 mi fu rivolta la parola del Signore:
5 “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,
prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
17 Tu, poi, cingiti i fianchi,
alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti alla loro vista,
altrimenti ti farò temere davanti a loro.
18 Ed ecco oggi io faccio di te
come una fortezza,
come un muro di bronzo
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
19 Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti”.
Siamo nel 627 a.C. e Geremia forse non ha ancora vent’anni quando è chiamato dal Signore ad essere profeta. E’ un giovane buono, sensibile, intelligente che desidera formarsi una famiglia e vivere tranquillo in Anatot, il villaggio dei suoi padri. Invece, prima ancora di essere concepito nel grembo di sua madre (v.4-5), è scelto per una missione difficile e rischiosa: è chiamato ad annunciare un messaggio contrario alle attese dei suoi connazionali. In un tempo in cui “dal più piccolo al più grande, tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna… e tutti sono convinti che così va bene” (Ger 8,10-11), Geremia è inviato a proclamare ad alta voce: “Così invece non va bene!”. La sua vita sarà un susseguirsi di drammi e d’insuccessi.
Il profeta è colui che vede il mondo con gli occhi di Dio. E’ dotato di una spiccata sensibilità spirituale che lo porta a rendersi immediatamente conto della distanza che separa il progetto del Signore dalle opere dell’uomo. Prova una profonda amarezza quando il popolo sceglie cammini di morte, quando nella società si istituzionalizzano rapporti ingiusti, quando coloro che dovrebbero proteggere i deboli, difendere l’orfano e la vedova si schierano dalla parte dei potenti.
Allora non riesce più a reprimere lo sdegno, non può tacere.
Una forza divina, incontrollabile si scatena in lui e lo spinge ad alzare la voce per denunciare il peccato, le oppressioni, i soprusi, le violenze, l’inettitudine di chi conduce il popolo alla rovina. A questa difficile missione è chiamato Geremia, il ragazzo timido e mite, destinato a divenire “oggetto di litigio e di contrasto per il paese” (Ger 15,10).
Nella seconda parte della lettura (vv.17-18) Dio annuncia a Geremia ciò che gli accadrà. Non lo illude, non gli promette una vita facile. Sarà – dice – come un soldato braccato dai nemici, come una fortezza assediata da un esercito assetato di sangue.
Come mai Dio lo invia se sa già che il suo profeta andrà incontro alla sconfitta e sarà vittima dell’odio dei suoi avversari? La lettura si conclude con parole di speranza e di conforto. Il Signore annuncia a Geremia: “Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (v.19).
Seconda Lettura (1 Cor 12,31-13,13)
Fratelli, 31 aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.
13,1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
2 E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.
3 E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
4 La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, 5 non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. 7 Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. 9 La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11 Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. 12 Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
13 Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!
A Corinto – come abbiamo rilevato nelle passate domeniche – c’erano dissensi e invidie a causa dei carismi. Dopo aver affermato che tutti i doni provengono dallo Spirito e sono destinati alla costruzione della comunità, Paolo indica ai cristiani una via superiore a tutte: la carità. E’ curioso: sta parlando di carismi – e la carità è certamente un carisma – e, invece di continuare sullo stesso tono, introduce un’immagine nuova, quella della via: “Vi mostrerò – dice – una via migliore di tutte”.
La carità, il maggiore dei doni di Dio, viene accolta dall’uomo in modo progressivo. Solo il Padre è carità (1 Gv 4,8) in pienezza; l’uomo – essere limitato – può solo incamminarsi verso questa meta. La carità è una via, un lungo cammino da percorrere con fatica.
Il brano inizia con un elogio dell’amore (vv.1-3). Dice che la carità è superiore a tutti gli altri doni: a quello delle lingue, alla profezia, alla fede, all’assistenza caritativa e addirittura all’immolazione del proprio corpo nel fuoco, gesto questo che, in quel tempo, era considerato la massima espressione di coraggio.
Questo amore non va confuso con la passione egoistica che cerca soltanto il proprio interesse ed il proprio piacere. Noi chiamiamo amore il desiderio di possedere un bene che già esiste oppure anche la semplice attrattiva fisica. E’ in questo senso che parliamo dell’amore di un giovane per una bella ragazza. Ma, in realtà, questo spesso non si riduce ad altro che a brama di possederla, di averla tutta per sé.
L’amore di cui parla Paolo è invece come quello di Dio: non trova il bene, ma lo crea. E’ in quest’ottica che va compresa la frase che Gesù ripete spesso: “Gli ultimi saranno primi e i primi ultimi” (Mt 20,16). Per noi i primi sono i buoni e gli ultimi i malvagi. Dio rovescia questa graduatoria. Le sue preferenze vanno per i peccatori, perché più bisognosi del suo amore: quando si lasciano invadere dal suo amore divengono i primi.
Si possono avere tante belle qualità, si possono portare avanti splendide iniziative, ma se non si è mossi dall’amore completamente gratuito e disinteressato, se si coltivano la vanità e il desiderio di affermare se stessi, non si possiede la “carità”.
Nella seconda parte della lettura (vv.4-7) Paolo parla della carità come se fosse una persona. La presenta con una serie di quindici verbi. Dice che essa è paziente, sopporta l’ingiustizia, domina il risentimento. E’ amabile, è sempre disposta a fare del bene a tutti. Non è invidiosa. Non è orgogliosa, non manca di rispetto. E’ disinteressata, si preoccupa dei problemi degli altri. Non cede alle provocazioni e trionfa sempre sul male.
Nella terza parte (vv.8-13) la carità è paragonata agli altri carismi. Questi passeranno, non saranno più necessari, verranno dimenticati, saranno come i giochi dell’infanzia che, ad un certo punto, non divertono più e vengono abbandonati; la carità invece sarà eterna, non finirà mai.
Vangelo (Lc 4,21-30)
In quel tempo, 21 Gesù cominciò a dire nella sinagoga: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”. 22 Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è il figlio di Giuseppe?”. 23 Ma egli rispose: “Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!”. 24 Poi aggiunse: “Nessun profeta è bene accetto in patria. 25 Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26 ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. 27 C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”.
28 All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; 29 si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. 30 Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.
Il brano di oggi riprende l’ultimo versetto di quello della scorsa domenica e racconta ciò che è accaduto nella sinagoga di Nazareth dopo che Gesù ha proclamato l’inizio dell’anno di grazia (v.21).
Le difficoltà di questo testo non sono poche e anche le interpretazioni che ne vengono date sono molteplici.
Non si capisce bene il motivo per cui gli abitanti di Nazareth improvvisamente passano dall’ammirazione per Gesù agli insulti e poi al tentativo di linciarlo. Non ha detto nulla di provocatorio, come mai reagiscono in questo modo?
Non è chiara neppure la ragione per cui egli cita i due proverbi: “Medico cura te stesso” e “Nessun profeta è ben accolto nella sua patria”. Quest’ultimo, in modo particolare, sembra fuori posto: perché parla così se – a quanto pare – lo stanno elogiando?
Marco dice che non riuscì a operare nessun prodigio a causa della loro incredulità (Mc 6,5). Luca invece fa supporre che essi lo credano capace di compiere miracoli. Perché allora non li fa?
Infine desidereremmo sapere anche come è riuscito a sfuggire a tanta gente inferocita. Si è miracolosamente volatilizzato? Ma allora avrebbe compiuto il prodigio che i compaesani gli chiedevano. Non può essere.
Quando, leggendo il Vangelo, ci si imbatte in particolari che appaiono strani e inverosimili c’è da rallegrarsi: sono segnali preziosi, sono un invito ad andare oltre il puro dato di cronaca e a ricercare il significato più profondo dell’episodio.
C’è un fatto che, più o meno esplicitamente, viene riferito da tutti gli evangelisti: gli abitanti di Nazareth e gli stessi parenti non hanno creduto in Gesù (Cf. Mc 3,21; Gv 7,5). Matteo e Marco collocano questo rifiuto al termine della predicazione in Galilea (Mc 6,1-6; Mt 13,53-58). Luca invece lo anticipa all’inizio della vita pubblica per un motivo teologico e pastorale.
Ciò che è accaduto nella sinagoga di Nazareth è un’ouverture di tutta la missione di Gesù. In questo preludio vengono accennati i temi principali del suo messaggio (la salvezza dei poveri, dei deboli, degli oppressi), l’accoglienza inizialmente favorevole, poi l’incomprensione, il rifiuto e la condanna a morte.
Il tentativo di linciaggio messo in atto a Nazareth ha il suo parallelo nella scena della passione, quando Gesù viene condotto fuori della città per essere giustiziato. E l’espressione: “Medico cura te stesso!” richiama lo scherno rivoltogli ai piedi della croce: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso” (Lc 23,35).
Analizzato l’obiettivo teologico dell’evangelista, vediamo quali sono le ragioni per cui i compaesani di Gesù reagiscono in modo così aggressivo alle sue parole.
Apparentemente il brano inizia con un’approvazione unanime del discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga: “Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca” (v.22). In realtà il significato del testo non può che essere diverso, altrimenti diventa difficile spiegare il seguito del racconto.
La reazione degli ascoltatori è motivata soltanto se Gesù ha detto o fatto qualcosa che ha urtato la loro sensibilità. E una ragione dell’ostilità forse può essere scoperta.
È costume durante la celebrazione che chi proclama il secondo testo biblico legga almeno tre versetti del libro di un profeta. Nella povera sinagoga di Nazareth probabilmente non ci sono tutti i libri dei profeti, ma solo quello di Isaia. E’ probabile che – letto e riletto ogni sabato – tutti lo conoscano ormai a memoria. Il brano scelto da Gesù, tra l’altro, è uno dei più noti.
L’irritazione degli ascoltatori potrebbe essere stata determinata dal fatto che Gesù ha bruscamente interrotto la lettura dopo un versetto e mezzo. Perché non è andato oltre?
Se si legge il seguito, si intuisce la ragione. Dopo “Sono stato inviato… ad annunciare un anno di grazia del Signore” il testo prosegue: “e a predicare un giorno di vendetta per il nostro Dio” (Is 61,2).
Era questa la frase che tutti volevano sentire.
Gli abitanti di Nazareth, come tutti gli israeliti agognavano questa vendetta, desideravano ansiosamente l’intervento punitivo di Dio contro i pagani che per tanti secoli li avevano oppressi.
Ora che finalmente sembrava giunto il momento della resa dei conti, ecco che, al posto della vendetta, Gesù annuncia un “anno di grazia”, il condono di tutti i debiti, la benevolenza incondizionata di Dio verso tutti.
Le sue “parole di grazia” contengono un messaggio inaccettabile, inaudito. Tutti nella sinagoga sono testimoni della faziosità del suo modo di accostarsi ai libri santi. Chi crede di essere? Non è forse il figlio di Giuseppe, il carpentiere?
Il contrasto fra la mentalità tradizionale che si aspetta un messia glorioso, vincitore e vendicatore e le parole di grazia pronunciate da Gesù è radicale e si riproporrà durante tutta la vita pubblica.
E’ il conflitto predetto da Simeone: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35).
Gesù non cerca di allentare la tensione, di ammorbidire le divergenze spiegando che tutto è nato da un banale malinteso. No, acuisce la tensione con due proverbi: “Medico cura te stesso” e “nessun profeta è ben accetto nella sua patria” (vv.23-24) che provocano una seconda, cocente delusione nei suoi compaesani. Hanno sentito parlare dei prodigi compiuti a Cafarnao e si sono illusi di poter assistere a quei miracoli che segnerebbero l’inizio dell’era messianica.
I due proverbi sono una smentita delle loro attese, una presa di distanza dalle loro convinzioni, un rifiuto dei loro sogni, una condanna delle loro illusioni.
Nella seconda parte del Vangelo di oggi (vv.25-27) la discussione sale ulteriormente di tono e diviene provocazione.
Gesù spiega la ragione per cui non ripete nel suo villaggio le opere compiute a Cafarnao: si comporta come Elia ed Eliseo che hanno soccorso stranieri invece di aiutare la gente bisognosa del loro popolo.
Questo è davvero troppo! Gli abitanti di Nazareth capiscono dove vuole arrivare: Israele non è l’unico destinatario delle promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza. Già non hanno gradito la scelta che Gesù ha fatto di abbandonare il suo villaggio per trasferirsi a Cafarnao, una città commerciale piena di pagani dove la vita non è sempre condotta in conformità alle norme della purità legale. Ora si rendono conto che il suo non era un gesto isolato, ma il segno chiaro che la salvezza di Dio veniva estesa a tutti i popoli.
Le sue parole di grazia irritano l’assemblea: sono una sfida alla meschinità e grettezza delle loro convinzioni religiose.
A questo punto non meraviglia più la reazione dei suoi ascoltatori: tutti sono presi da sdegno, si alzano, lo cacciano fuori dalla città e cercano di buttarlo giù dal precipizio (v.29).
L’ultimo versetto: “Ma Gesù, passando in mezzo a loro, se ne andò” (v.30) non si riferisce a una sua sparizione miracolosa. E’ un messaggio di consolazione e di speranza che Luca vuole dare ai cristiani delle sue comunità i quali si trovano a dover affrontare opposizione, incomprensioni, dissidi, ostilità. Il rischio che corrono è di dimenticare che si sta ripetendo in loro ciò che è accaduto a tutti i profeti e al loro Maestro.
Protetti da Dio – assicura Luca – passeranno anch’essi in mezzo alla persecuzione e continueranno sicuri, come lui, lungo la loro strada, fino alla meta.
AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News