p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 26 Dicembre 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 26 dicembre 2021.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

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S. Famiglia: Né svalutata, né idolatrata

“I figli sono un dono di Dio al mondo e sono di tutti”. Ecco una frase che a volte provoca la gelosia delle mamme, gelosia sintomo di un amore possessivo per il figlio sempre più spesso unico, iperprotetto, ipercoccolato, iperdifeso.

La famiglia è il luogo privilegiato della formazione e dell’educazione, ma non l’unico.

C’è una comunità nella quale il figlio va integrato affinché in essa cresca, maturi, incontri i fratelli e apprenda l’accoglienza, la disponibilità gratuita, la collaborazione, la tolleranza, il perdono.

Restringere gli orizzonti, ripiegarsi compiaciuti sul piccolo mondo degli affetti e degli interessi, rinchiudersi dentro frontiere anguste che ignorano la fratellanza universale è una pericolosa idolatria dell’istituzione familiare.

La famiglia voluta da Dio è aperta, è una tappa verso la meta ultima, è un trampolino da cui proiettarsi nella famiglia del Padre celeste.

Il momento del distacco può essere doloroso – ne hanno fatto l’esperienza Maria e Giuseppe quando sono stati lasciati da Gesù – e può essere interpretato come rifiuto ed esclusione. In realtà è un balzo verso la vita.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“I figli sono un tuo dono al mondo, Signore. Non li rifiutiamo e non ce ne impossessiamo”.

Prima Lettura (1Sam 1,20-22.24-28)

20 Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuele. “Perché – diceva – dal Signore l’ho impetrato”.
21 Quando poi Elkana andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il voto, 22 Anna non andò, perché diceva al marito: “Non verrò, finché il bambino non sia divezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre”.
24 Dopo averlo divezzato, andò con lui, portando un giovenco di tre anni, un’ efa di farina e un otre di vino e venne alla casa del Signore a Silo e il fanciullo era con loro.
25 Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli 26 e Anna disse: “Ti prego, mio signore. Per la tua vita, signor mio, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. 27 Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho chiesto. 28 Perciò anch’io lo dò in cambio al Signore: per tutti i giorni della sua vita egli è ceduto al Signore”.
E si prostrarono là davanti al Signore.

Quando Dio presentò all’uomo colei che doveva essere la compagna della sua vita, Adamo esultò di gioia ed esclamò: Si chiamerà Eva – in ebraico hawwah – che non è un nome proprio, ma significa semplicemente colei che dona vita.

Vita è dunque l’identità della donna; tutto in lei parla di vita, di accoglienza, di disponibilità, di servizio alla vita. In lei la vita sboccia, germoglia, cresce e viene consegnata al mondo.

Il desiderio di avere un bambino è radicato nella costituzione biologica di ogni donna. Rachele, sterile, dice a Giacobbe: “Dammi dei figli, se no io muoio!” (Gen 30,1).

Come lei, come tante altre spose della Bibbia, anche Anna non poteva generare e per questo soffriva immensamente. “Perché piangi – le chiese un giorno il marito Èlkana – Non sono forse io per te meglio di dieci figli?” (1 Sam 1,8). No, nemmeno le tenerezze di uno sposo dolce e premuroso erano in grado di compensare il suo incontenibile bisogno di maternità.

Dio ascoltò la sua insistente preghiera e le concesse un bimbo, Samuele, destinato a svolgere un ruolo determinante nella storia del popolo d’Israele.

Anna fu certo tentata considerare tutto suo quell’unico figlio donatole dal Cielo, di trattenerlo solo per sé. Invece, non appena fu svezzato, si recò col marito al santuario di Silo e lo consegnò al Signore.

Lo allevò fino a quando ebbe bisogno di lei, poi, lieta di aver svolto bene il suo compito di mamma, lo affidò a chi lo avrebbe aiutato a capire la vocazione cui Dio lo chiamava, a Eli il sacerdote del tempio.

Nessun figlio appartiene ai genitori, è solo consegnato loro in affido. Dono prezioso che va custodito, fatto crescere e preparato per missione cui il Signore lo destina.

Coscienti dell’arduo compito, i genitori, grati a Dio che li ha ritenuti degni di tanta fiducia, non si appropriano del dono ricevuto, ma sono felici di riconsegnarlo al Signore perché sia un suo strumento nella realizzazione dei suoi disegni sul mondo.

Anna ed Èlcana – nota il racconto – vennero alla casa del Signore a Silo portando un giovenco di tre anni, un’ efa di farina e un otre di vino e il fanciullo era con loro (v. 24).

Andarono a celebrare una festa, non a piangere, anche se erano ben coscienti che sarebbero tornati a casa soli.

Con genitori così sensibili e attenti ai disegni di Dio non stupisce che il figlio Samuele sia poi divenuto uno dei personaggi eminenti della storia d’Israele. Nella Bibbia è chiamato veggente, sacerdote, giudice, profeta e guidò saggiamente Israele in un momento particolarmente difficile.

Seconda Lettura (1Gv 3,1-2.21-24)

1 Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. 2 Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
21 Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio; 22 e qualunque cosa chiediamo la riceviamo da lui perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che è gradito a lui.
23 Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. 24 Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

La vita di Dio che il cristiano riceve nel battesimo è una realtà spirituale, misteriosa.

Per descriverla, Gesù, parlando con Nicodemo, impiega un paragone: è come il vento, non lo si vede, non si sa donde venga né dove vada, eppure sappiamo che esiste, lo si sente, ne notiamo gli effetti.

La vita divina nell’uomo non può essere verificata con i sensi, tuttavia i segni della sua presenza sono inequivocabili. Chi l’ha accolta diviene un uomo nuovo, guidato da uno spirito che non è più quello di questo mondo.

Il brano della lettera di Giovanni inizia con un’esclamazione di gioia: Quale grande amore ci ha donato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (v. 1).

Nella mentalità semitica, i figli non solo davano continuità alla vita biologica del padre, ma si riteneva che lo rendessero realmente presente. Per questo ci si attendeva che in loro fosse riconoscibile il genitore: per le sembianze esteriori e i tratti del viso, certo, ma soprattutto per l’integrità morale, per la fedeltà a Dio, per gli aspetti più significativi del suo carattere.

Il cristiano autentico è, nel mondo, la presenza del divino e, come ogni figlio, riproduce le sembianze del Padre che sta nei cieli.

La conseguenza – spiega Giovanni – è che chi non conosce Dio, non può neppure riconoscere i figli che da lui sono stati generati (v. l). Questi fanno scelte in sintonia con i pensieri e i sentimenti del Padre, gli assomigliano, sono diversi dagli altri, sono “santi”. Non deve sorprendere quindi che non siano capiti da coloro che ripiegano i loro sguardi unicamente sulle realtà della terra.

Questa verità è richiamata anche da Paolo ai cristiani di Corinto. I discepoli del Signore – dichiara – possiedono una sapienza, un modo di valutare le realtà di questo mondo che è incompatibile con i criteri di giudizio degli uomini. Si tratta di “una sapienza divina, misteriosa che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere… L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle” (1 Cor 2,6-14).

Dopo aver richiamato ai cristiani la dignità della loro figliolanza divina – Già fin d’ora noi siamo figli di Dio – l’autore della lettera li invita a contemplare il destino radioso che li attende: Ciò che saremo non è ancora stato rivelato (v. 2).

La condizione attuale non è definitiva. Un velo, costituito dalla nostra realtà mortale legata alla terra, impedisce di renderci conto di ciò che realmente siamo. Un giorno questo velo sarà tolto e allora contempleremo Dio così come egli è e capiremo ciò che già oggi siamo.

Nel grembo materno, il figlio riceve alimento e vita dalla madre, eppure, pur dipendendo completamente da lei, non è in grado di vedere il suo volto. Solo dopo la nascita può guardare e abbracciare teneramente colei che l’ha generato.

In questo mondo l’uomo vive la gestazione nell’attesa del momento del parto. Si trova  nel grembo di Dio che è padre e madre. “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” – ricorda Paolo agli ateniesi (At 17,28), ma non possiamo vedere il suo volto. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (v. 2).

La somiglianza con i nostri genitori biologici è un’immagine della vocazione cui siamo chiamati: essere come il Padre celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti (Mt 5,45).  

Di fronte a una meta così sublime siamo tentati di rassegnarci all’insuccesso.

Anche se ci sforziamo di vivere in modo coerente, ci rendiamo conto di rimanere peccatori e Giovanni ce lo ricorda all’inizio della sua lettera: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8).

Se facciamo un bilancio della nostra vita, siamo costretti ad ammettere di avere commesso tanti errori, ci rendiamo conto di essere stati condizionati da difetti e da abitudini che non siamo stati capaci di correggere; per questo non riusciamo a liberarci dal pensiero che anche Dio ci rifiuti e ci condanni, come fa il nostro cuore.

A queste perplessità e inquietudini la lettura risponde con una delle affermazioni più commoventi di tutta la Bibbia.

Se ci impegniamo nell’amore concreto al fratello, non dobbiamo più aver paura delle nostre miserie, delle nostre fragilità e nemmeno del giudizio severo pronunciato dal nostro cuore. Di qualunque cosa esso ci rimproveri, potremo rassicurarlo, perché “Dio è più grande del nostro cuore” (v. 20).

La più subdola, la più diabolica delle tentazioni è quella che ci fa adorare un Dio che, in realtà, è più piccolo del nostro cuore, un Dio che un giorno apparirà, giudice severo e inflessibile, per punire coloro su cui non vedrà risplendere nitida l’immagine del suo Unigenito, Gesù Cristo.

Il nostro cuore ci richiama continuamente la nostra identità di figli del Padre celeste e ci rimprovera quando questa identità viene deturpata. Questo rimprovero è salutare, ma guai dimenticare che Dio è più grande del nostro cuore.

Vangelo (Lc 2,41-52)

41 I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42 Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; 43 ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44 Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45 non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46 Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. 47 E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48 Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. 49 Ed egli rispose: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. 50 Ma essi non compresero le sue parole.
51 Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. 52 E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Alle nostre famiglie, ne siamo certi, non può essere proposto un modello di vita migliore di quello della famiglia di Nazareth; tuttavia, il fatto raccontato nel Vangelo di oggi è piuttosto sconcertante. Maria e Giuseppe dimenticano il figlio a Gerusalemme e per un giorno camminano tranquilli senza preoccuparsi di lui; Gesù si allontana dai genitori senza chiedere alcun permesso e quando la madre gli chiede spiegazioni del suo comportamento sembra addirittura risponderle male; Maria e Giuseppe non capiscono le sue parole; solo alla fine si ricorda che Gesù ritorna a Nazareth e, da lì in avanti, rimane loro sottomesso; un’ottima decisione questa, ma come si spiega la sua precedente “disobbedienza”? E’ innegabile che, letto come cronaca, questo brano presenta qualche difficoltà. Come interpretarlo?

Noi sappiamo che un incontro casuale con una persona viene raccontato in modo ben diverso se questa non è mai più stata rivista o se invece è diventata la migliore amica. Luca non scrive il suo Vangelo il giorno dopo che i fatti sono accaduti, ma una cinquantina d’anni dopo la Pasqua e in ogni pagina della sua opera lascia trasparire la fede nel Cristo risorto. La morte e risurrezione di Gesù hanno fatto capire a lui e ai cristiani delle sue comunità ciò che Maria e Giuseppe, settant’anni prima, non potevano ancora intuire. Già nel bambino di dodici anni egli riconosce il Cristo, il figlio di Dio, il Salvatore, colui che è obbediente al Padre fino al dono della vita.

Dopo questa premessa addentriamoci nel brano di oggi.

La legge d’Israele prescriveva (solo agli uomini adulti) il pellegrinaggio a Gerusalemme tre volte all’anno in occasione delle feste principali (Es 23,17; Dt 16,16). Per chi abitava lontano era però praticamente impossibile osservare questo precetto. Molti Giudei consideravano già una grande fortuna poter compiere il santo viaggio anche solo una volta nella vita. Maria e Giuseppe che, abitando a Nazaret, distavano da Gerusalemme circa tre giorni di cammino, vi salivano ogni anno per celebrarvi la Pasqua.

È in occasione di uno di questi pellegrinaggi che accade il fatto narrato nel Vangelo di oggi. Gesù ha dodici anni, è dunque quasi maggiorenne (a tredici anni in Israele si diventa adulti e si è tenuti all’osservanza di tutti i precetti della legge).

Il tempio è una costruzione splendida, è circondato da grandi portici sotto i quali i rabbini e gli scribi spiegano le sacre Scritture, recitano Salmi e distribuiscono ai pellegrini i loro pii consigli. Gesù è desideroso di scoprire la volontà del Padre e sa dove trovarla: nei libri santi del suo popolo, nella Bibbia. Ecco la ragione per cui si ferma a Gerusalemme: vuole capire la parola di Dio. Passeggiando nel tempio durante i giorni della festa, forse è rimasto colpito dalle spiegazioni date da qualche maestro più preparato e più pio degli altri e desidera ascoltarlo ancora, vuole porgli delle domande, vuole chiarire i suoi dubbi. I pellegrini che lo sentono conversare con i rabbini si fermano stupiti ed ammirati per la sua intelligenza precoce e straordinaria. Non è facile trovare un ragazzo della sua età che mostri tanto amore per la Bibbia e che sia in grado di sollevare questioni tanto profonde.

Lo scopo del racconto di Luca non è sottolineare l’intelligenza di Gesù, ma preparare il lettore a capire la risposta che egli dà a sua madre, preoccupata e sorpresa dal suo comportamento. Si tratta delle prime parole che egli pronuncia nel Vangelo di Luca, dunque – per l’evangelista – rivestono un’importanza particolare, sono come il programma di tutta la sua vita. La risposta è formulata con due domande: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (v. 49).

I bambini sono soliti porre un’infinità di domande, anche Gesù ne ha certamente rivolte tante ai suoi genitori. Questa è la prima volta che essi non sono in grado di dargli una risposta, per questo viene notato il loro stupore: “Essi non compresero le sue parole” (v. 50). Si rendono conto che egli inizia a prendere le distanze dal ristretto ambiente familiare e si apre ad un orizzonte più ampio. Egli è nato in una famiglia, ma non le appartiene. E’ un cittadino del mondo e, come ogni figlio, è un dono di Dio a tutta l’umanità.

In apparente contrasto con quanto stiamo dicendo, l’ultima parte del Vangelo di oggi (vv. 51-52) sottolinea che Gesù torna a Nazaret e sta sottomesso ai genitori. Sembrerebbe che, dopo la scappatella… egli si rimetta a far giudizio. Il senso dell’affermazione è però diverso. In Israele esiste il comandamento che impone di “onorare i genitori”. Questo implica il dovere di aiutarli nella loro vecchiaia, ma, soprattutto, di seguirne la fede religiosa. I genitori sono incaricati di narrare ai loro figli ciò che il Signore ha compiuto per il suo popolo (Dt 6,20-25). Obbedire ai genitori significa accoglierne gli insegnamenti ed imitarne la fedeltà a Dio.

In questo senso Gesù ha onorato i suoi genitori, ha assimilato la loro la fede profonda nel Dio di Abramo e l’amore per la parola di Dio alla quale farà costante riferimento durante tutta la sua vita.

Potremmo concludere qui, ma i biblisti invitano a leggere più in profondità questo brano. Sono convinti che Luca lo ha scritto per richiamare, fin dall’inizio del suo Vangelo, in modo simbolico, i fatti della morte-risurrezione di Gesù. Quali? Ne ricordo alcuni.

Anzitutto ambedue gli episodi avvengono a Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua. Ambedue le volte Gesù sale a Gerusalemme per compiere la volontà del Padre e ambedue le volte tutti ritornano a casa loro e lo lasciano solo: i genitori se ne vanno e non capiscono che egli deve occuparsi delle cose del Padre suo, gli apostoli lo abbandonano e non capiscono come il dono della vita introduca nella gloria della risurrezione (Lc 24,12).

Come nel Vangelo di oggi, nei racconti della Pasqua Gesù deve compiere la volontà del Padre (Lc 24,7.26.44). Le donne lo cercano disperatamente, non lo trovano e odono la stessa domanda: “Perché cercate?” (Lc 24,5). Gesù (risorto) viene incontrato “il terzo giorno”; i discepoli (come Maria e Giuseppe) non comprendono né l’accaduto né le parole che vengono loro rivolte. Il giorno di Pasqua Gesù siede come maestro e pone domande sulle Scritture (Lc 24,44), insegna la parola di Dio in modo da “riscaldare il cuore” ed estasiare i suoi uditori (Lc 24,32), proprio come ha fatto da bambino.

Nel tempio i rabbini pongono a Gesù domande. Essi, che pure conoscono bene la Bibbia, non riescono a coglierne il significato ultimo. C’è una sola persona che può illuminare l’oscurità di quei testi: Gesù. Infatti è lui che, dopo la risurrezione, apre le menti dei suoi discepoli alla comprensione delle Scritture (Lc 24,32). L’AT diviene comprensibile solo quando viene letto alla luce della morte e risurrezione di Cristo.

Se questi riferimenti agli avvenimenti della Pasqua sono – come i biblisti ritengono – intenzionali, allora lo scopo per cui Luca ha inserito questo episodio nel suo Vangelo diviene chiaro: vuole che i cristiani delle sue comunità non si scoraggino se ancora non riescono né a capire né ad accogliere il progetto del Padre. Non è facile accettare l’idea che la vita passa attraverso la morte. Li invita a non fuggire, vuole che tornino a Gerusalemme dove, osservando e ascoltando il Maestro, gradualmente lasceranno che il loro cuore si apra alla volontà del Padre.

Di fronte agli avvenimenti spesso inspiegabili e incomprensibili c’è un solo atteggiamento corretto: “Serbare tutte le cose nel nostro cuore”,­ come ha fatto Maria e meditarle alla luce della parola di Dio. Anche per lei non è stato facile capire ed accettare il percorso per il quale Dio ha voluto che suo figlio si incamminasse.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News