p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 25 Giugno 2023

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 25 giugno 2023.
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Davvero rischioso andare contromano!

Prima di imboccare una strada bisogna fare attenzione alla segnaletica, è necessario verificare se, per caso, non ci si è avventurati in un senso vietato.

Quando osserva il senso di marcia in cui si muovono gli altri uomini, il discepolo di Cristo ha l’immediata e nitida sensazione di guidare contromano. Se sceglie le vie della rinuncia, della condivisione dei beni, dell’amore disinteressato, del perdono senza limiti, della fedeltà alla parola data, vede il traffico muoversi in direzione opposta e si rende conto che, per quanto proceda con circospezione e prudenza, lo scontro diviene inevitabile e che sarà sempre lui ad avere la peggio, ad essere considerato fuori posto, ad essere accusato di infrangere le regole accettate da tutti.

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Il giusto è per l’empio “insopportabile solo al vederlo” (Sap 2,14), “crea imbarazzo” (Sap 2,12); infastidisce “perché la sua vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le sue strade” (Sap 2,15).

Nei momenti di persecuzione, può insorgere nel cristiano anche il dubbio di avere sbagliato direzione.

Dopo aver verificato se sta realmente seguendo le indicazioni del Maestro, non deve farsi prendere dal timore: è quella la direzione giusta, è lui che guida con gli occhi aperti e procede nella luce.

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Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non ci verrà chiesto se avremo vinto o perso, ma se avremo lottato per la causa giusta”.

Prima Lettura  (Ger 20,10-13)

10 Sentivo le insinuazioni di molti:
“Terrore all’intorno!
Denunciatelo e lo denunceremo”.
Tutti i miei amici spiavano la mia caduta:
“Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,
ci prenderemo la nostra vendetta”.
11 Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,
per questo i miei persecutori
cadranno e non potranno prevalere;
saranno molto confusi perché non riusciranno,
la loro vergogna sarà eterna e incancellabile.
12 Signore degli eserciti, che provi il giusto
e scruti il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di essi;
poiché a te ho affidato la mia causa!
13 Cantate inni al Signore, lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero
dalle mani dei malfattori.

Geremia vive in uno dei momenti più drammatici della storia del suo popolo. L’esercito di Nabucodònosor ha circondato Gerusalemme, sta per prenderla d’assalto e saccheggiarla. Il re e i comandanti dell’esercito hanno perso completamente la testa e prendono decisioni folli. I capi religiosi, invece di rendersi conto che si sta avvicinando la rovina, benedicono le scelte dei militari e incitano il popolo: “Tutto va bene, non vi accadrà nulla di male” (Ger 6,13-14), mentre invece tutto va male ed è prossima la catastrofe.

Geremia sembra la persona meno indicata per entrare in questo conflitto: è giovane timido, sensibile, amante della vita quieta, alieno dalle polemiche; il suo sogno è vivere tranquillo in Anatot con la sua famiglia, ma il Signore lo chiama a una missione difficile e rischiosa “contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese”. “Cingiti i fianchi – gli dice – alzati e di’ loro ciò che ti ordinerò… Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (Ger 1,17-19).

Nemico giurato di Geremia è un sacerdote, Pascùr, figlio di Immer, sovrintendente-capo del tempio. Costui fa fustigare e mettere in ceppi il profeta. Il giorno seguente, liberato dalla prigione, Geremia lo incontra e, ironicamente, ne storpia il nome, chiamandolo Magòr, che significa terroreterrore all’intorno (Ger 20,1-3). Pascùr – assicura il profeta – non spaventerà più nessuno, ma presto sarà lui, sbigottito e sgomento, a cercare disperatamente rifugio in qualche nascondiglio della città, quando i soldati di Babilonia lo inseguiranno. Verrà catturato e ridotto in schiavitù, sarà condotto in esilio dove morirà assieme a coloro che ha ingannato con menzogne: prometteva pace, mentre si stavano avvicinando giorni di terrore.

La lettura di oggi si apre con le parole di Geremia che ricorda la reazione della folla alle sue denunce. Riprendendo il nomignolo rivolto a Pascùr – terrore all’intorno – la gente si fa beffe del profeta chiamandolo terrore all’intorno, come dire: adesso atterrito sei tu, non Pascùr, lo vediamo tutti che stai morendo di paura.

I nemici di Geremia non si limitano alle burla e ai sarcasmi; tramano, cercano ragioni per imbastire un processo‑farsa e poterlo condannare. Pensano anche al linciaggio (v. 10).

Confusi fra la moltitudine che grida ci sono anche i suoi migliori amici. Il profeta, rimasto solo, vede fallire la sua missione, si sente rifiutato dal suo popolo e abbandonato da tutti. Inevitabili e comprensibili a questo punto sono lo scoraggiamento, le incertezze, lo sconforto e addirittura il dubbio che la sua vocazione sia stata un inganno. Si sfoga allora con il Signore, gli grida tutto il suo dolore, giunge addirittura a maledire il giorno della sua nascita (Ger 20,14-18).

Questa preghiera, fatta di espressioni audaci, ma sincere, fa riemergere in lui la certezza della fedeltà di Dio. Le delusioni, le contrarietà, le persecuzioni hanno fatto vacillare, per un momento, la sua fiducia e la sua speranza, ma non sono riuscite a soffocarle e a spegnerle. Eccolo, infatti, proclamare: “Il Signore è al mio fianco come un prode valoroso” (v. 11). Ormai è sicuro: Dio interverrà, farà splendere la verità e farà trionfare chi ha difeso la giusta causa.

Gli ultimi versetti della lettura (vv. 12-13) contengono uno sfogo piuttosto violento contro i nemici. Le parole di Geremia non vanno intese come un’esplosione di odio, ma come un desiderio, giusto e umano, di veder trionfare le proprie ragioni, riconosciuta la propria innocenza e smascherata la malvagità degli avversari.

 È difficile essere profeti, è difficile dire la verità, essere i primi ad alzare la voce per denunciare ciò che non va. Più comodo è nascondersi, fingere di non vedere, lasciare che siano altri a parlare. Eppure, se si vuole una società nuova, una chiesa più conforme al vangelo e più docile allo Spirito, se si aspira a una novità di vita, sono necessari profeti che, come Geremia, abbiano il coraggio di dire ciò che il Signore suggerisce loro, anche a rischio della vita.

Seconda Lettura (Rm 5,12-15)

12 Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. 13 Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, 14 la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.

 15 Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini.

In questo brano molto difficile della Lettera ai romani, Paolo pone a confronto Adamo e Gesù: contrappone le conseguenze del peccato del primo uomo alla giustificazione operata da Cristo.

Dice che, fin dall’inizio, gli uomini hanno peccato e non si sono inseriti nel progetto di Dio. Poi, lungo i secoli, hanno continuato a commettere errori e a praticare l’ingiustizia, seguendo l’esempio di Adamo che aveva disobbedito e si era allontanato da Dio.

Gesù si è comportato in modo opposto: è stato obbediente al Padre, ha compiuto la sua volontà fino alla morte.

La conseguenza del peccato di Adamo fu la morte. Non la morte biologica – che è un fatto naturale – ma la “non vita” scelta da chiunque rifiuti di seguire il cammino tracciato da Dio. La grazia ottenuta dall’obbedienza di Cristo, tuttavia, è di gran lunga superiore ai guai provocati dall’insensatezza umana. Per merito di Cristo, Dio ha comunicato a tutti la sua vita.

Vangelo  ✝ Mt 10,26-33

26 Non li temete dunque, poiché non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. 27 Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti. 28 E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna. 29 Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia.
30 Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; 31 non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!
32 Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33 chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.

“Il nostro signore e nostro dio comanda che si faccia quanto segue…”. Così iniziano i documenti ufficiali emanati in nome di Domiziano (81-96 d.C.), l’imperatore che ha fatto erigere ovunque statue in suo onore ed esige di essere venerato come un dio. Il console Flavio Clemente, suo cugino, che si è convertito a Cristo e che, a causa della sua fede, non può aderire a simili richieste insane, viene giustiziato, e sua moglie Domitilla esiliata in Sardegna.

Il culto all’imperatore si diffonde soprattutto in Asia Minore. Ad Efeso vengono eretti un tempio e una statua colossale al “dio Domiziano” e le autorità locali, asservite al potere, vogliono che tutti si prostrino e adorino colui che il veggente dell’Apocalisse definisce “la bestia” (Ap 13,4.12).

I cristiani non possono certo tributare onori divini al sovrano, per questo cominciano per loro le malversazioni, i castighi, le discriminazioni, le confische dei beni. Molti non reggono a questi continui soprusi, sono al limite della sopportazione e incombe il rischio dell’apostasia. Come aiutarli a superare questo momento difficile?

Matteo scrive in questo contesto storico e, per incoraggiare i cristiani delle sue comunità, inserisce nel suo vangelo i detti del Maestro riguardanti le difficoltà e le persecuzioni che i discepoli avrebbero dovuto sopportare.

Per il cristiano la persecuzione non è un incidente di percorso, è un fatto ineluttabile. Anche l’autore della seconda lettera a Timoteo (scritta più o meno nello stesso periodo) lo ricorda: “Sì, tutti coloro che vorranno vivere piamente in Cristo Gesù, verranno perseguitati” (2 Tm 3,12).

Quali raccomandazioni fa Gesù ai discepoli perseguitati?

Comincia a metterli in guardia dalla paura. La paura ha una funzione vitale positiva: segnala i pericoli, impedisce i gesti avventati, rischiosi, insensati; ma, se sfugge al controllo, ostacola le azioni coraggiose e le scelte risolute.

Per chi ha preso la decisione di seguire Cristo la paura costituisce spesso il peggior nemico. Si manifesta nel timore di perdere la propria posizione, di veder scemare la stima dei superiori, di perdere amicizie, di venire privati dei propri beni, di essere puniti, degradati, per alcuni anche di venire uccisi. Chi ha paura non è più libero. È normale avere paura, ma guai a lasciarsi dominare e guidare dalla paura, si finisce per rimanerne paralizzati.

Nel vangelo di oggi Gesù insiste, per tre volte: “Non abbiate paura!” (vv. 26.28.31) e ogni volta aggiunge un motivo per giustificare la sua raccomandazione.

L’annunciatore del vangelo ha paura, anzitutto, perché teme che, a causa della violenza scatenata dai nemici di Cristo, la sua missione possa fallire (vv. 26-27).

Gesù lo rassicura: nonostante le prove e le difficoltà, il vangelo si diffonderà e trasformerà il mondo. Per chiarire meglio, cita l’esempio dei rabbini del suo tempo. Prima di inviare i loro discepoli a discutere pubblicamente sulle piazze, essi li istruivano in segreto. La loro sapienza rimaneva per lungo tempo nascosta, ma un giorno tutto il popolo era costretto a riconoscere la loro saggezza e la loro preparazione. La stessa cosa – assicura Gesù – accadrà ai suoi apostoli. Essi forse non vedranno germogliare i semi di luce e di bene che con fatica e nel dolore hanno seminato, ma devono coltivare la gioiosa certezza che la messe crescerà e sarà abbondante. La loro opera non sarà vana; quand’anche fossero messi a morte, nessuna forza nemica sarà in grado di impedire la realizzazione del progetto di Dio.

È illuminante ciò che è accaduto a Gesù: i suoi nemici erano convinti di averlo messo a tacere per sempre, di aver posto una pietra enorme e inamovibile su di lui e sul suo messaggio, ma nella Pasqua è risorto, proprio come il seme che, sepolto nella terra, muore, ma per rispuntare centuplicato.

La seconda ragione per cui si ha paura è di essere maltrattati o addirittura messi a morte (v. 28).

Gesù invita a riflettere: che male possono fare i nemici del vangelo? Offendere, accusare ingiustamente, percuotere, confiscare i beni, togliere la vita. Sì, ma nulla più. Nessuna violenza è capace di privare il discepolo dell’unico bene duraturo: la vita che ha ricevuto da Dio e che nessuno gli può togliere. Ne era profondamente convinto Paolo: “Sì, io ne sono certo: né la tribolazione, né l’angoscia, né la persecuzione, né la fame, né la nudità, né la spada… nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio che si è manifestato in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35-39).

C’è però qualcuno – continua Gesù – che deve essere temuto, è “colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo”. Non è un personaggio esterno a noi, è il male che, da quando siamo nati, portiamo dentro di noi; è quella forza negativa che ci suggerisce cammini opposti a quelli di Cristo. Bisogna dunque temere anzitutto se stessi e la propria paura. Non abbiamo forse tante volte, per paura di rimanere soli, coltivato amicizie ambigue o mantenuto legami che hanno finito per renderci schiavi e impedirci di vivere? Per paura non ci siamo comportati in modo vile, non abbiamo mentito, non abbiamo commesso ingiustizie? Chi ha paura non riesce a compiere ciò che lo porterebbe a realizzare la propria vita e quindi… “perisce”.

La terza ragione per cui la persecuzione spaventa è che spesso non tocca solo noi, ma coinvolge anche chi ci è vicino che può venire privato del necessario alla sussistenza (vv. 29-31).

A questa obiezione Gesù risponde richiamando la fiducia nella provvidenza del Padre del cielo. Non promette ai suoi discepoli che non succederà nulla, che verranno sempre tratti in salvo, in modo prodigioso, ma che Dio realizzerà comunque il loro vero bene, se avranno il coraggio di rimanergli fedeli. Efficace il richiamo ai capelli della testa dei quali solo Dio conosce il numero. Nulla di noi sfugge al suo amore ed alle sue premure. Egli si interessa di ogni sua creatura, anche della più piccola, quanto più seguirà la causa di chi si sta battendo per l’avvento del suo regno!

Il brano conclude con una promessa: Gesù riconoscerà, davanti al Padre suo, coloro che lo avranno riconosciuto davanti agli uomini (vv. 32-33). Non sta parlando del giudizio finale, ma di ciò che accade oggi: in alcuni dei suoi discepoli che agiscono nel mondo egli si riconosce, in altri no. Si riconosce in chi non ha paura di annunciare il suo vangelo, anche a costo della vita; non si riconosce invece in coloro che non riproducono davanti agli uomini la sua immagine, in coloro che non rendono presente nel mondo la sua parola. Di fronte al Padre egli testimonia questa realtà.

Oggi sono ancora molti coloro che vengono uccisi a causa del vangelo, ma anche dove non c’è spargimento di sangue, la persecuzione esiste ed è inevitabile. Si manifesta a volte in modo aperto mediante insulti, pubblici dileggi, altre volte in modo subdolo e camuffato attraverso l’emarginazione, la discriminazione, l’esclusione…

Chi con la sua vita non disturba nessuno, può essere certo: forse senza rendersene conto, si è adeguato ai princìpi di questo mondo e ha rinunciato al regno di Dio.

Per gentile concessione di Settimana News.