p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 25 Aprile 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 25 Aprile 2021.
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Il pastore che dona la vita

Non desta meraviglia che, anche in tempi di crisi religiosa, la maggioranza della gente continui a credere in Dio, ma, quando si procede a una verifica dell’identità di questo Dio, spesso si nota che è ben diverso da colui che si è rivelato in Gesù. È un Dio che si adegua alla giustizia dell’uomo, premia e punisce in base ai meriti, si compiace del culto, largisce benedizioni ai suoi devoti, proibisce l’adulterio, ma approva l’accumulo dei beni e la loro libera gestione, anzi, diviene, a volte, un socio in affari. È un Dio che permette di uccidere per legittima difesa ed è, soprattutto, grande, infinito, onnipotente, capace di farsi rispettare.

Questo Dio, così ragionevole, ha trovato accoglienza anche in alcuni catechismi cattolici e non è difficile da accettare.

Un giorno però, in Gesù, il vero Dio si è presentato agli uomini completamente diverso: frequentava i peccatori e stava con gli esclusi, si è lasciato sputare in faccia senza reagire, ha amato chi lo inchiodava su una croce, non era né onnipotente né infinito. Di fronte a questo Dio debole, incapace di difendersi, la fede di tutti è vacillata e Pietro, quando ha giurato di non conoscerlo (Mc 14,71), ha parlato – credo – anche in nome della grande maggioranza dei cristiani.

Credere in un Dio così è difficile: significa riporre la propria gloria nel farsi piccoli per amore.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Dovrò passare per valli oscure, ma non temo. Mi fido del pastore che mi guida”

Prima Lettura (At 4,8-12)

8 Allora Pietro, pieno di Spirito Santo, disse loro: “Capi del popolo e anziani, 9 visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, 10 la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. 11 Questo Gesù è “la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo”.
12 In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati”.

Ecco un nuovo discorso di Pietro: è il terzo degli otto che gli vengono attribuiti nel libro degli Atti. È stato pronunciato poco dopo quello che ci è stato proposto domenica scorsa. Il contesto in cui va collocato è lo stesso: Pietro e Giovanni avevano curato uno storpio dalla nascita presso la porta “bella” del tempio e, al popolo stupito, avevano dichiarato: “Il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete” (At 3,16). Stavano ancora parlando quando sopraggiunsero i capi, “irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in Gesù la risurrezione dai morti. Li arrestarono e li portarono in prigione”. Il giorno seguente li fecero comparire in tribunale e chiesero loro: “Con quale potere e in nome di chi avete fatto questo?” (At 4,1-7).

La lettura inizia con la risposta di Pietro alla domanda che i capi del popolo gli hanno rivolto. La guarigione – dichiara – è stata operata “nel nome di Gesù che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti” (vv. 8-10).

Al centro del discorso (v. 11) è posta la citazione del salmo: “La pietra scartata da voi, costruttori, è divenuta testata d’angolo” (Sl 118,2). Pietro la interpreta come una parabola di quanto è accaduto a Gesù e, di nuovo, contrappone in modo efficace l’opera degli uomini all’azione di Dio. Paragona i membri del sinedrio a costruttori che, trovatisi tra le mani una pietra solida, ma che non rientrava nei loro progetti, temendo che avrebbe destabilizzato tutto il loro “edificio”, l’hanno scartata e scagliata lontano. Dio, che invece la riteneva sommamente preziosa, è andato a ricuperarla e l’ha collocata come fondamento della sua nuova costruzione.

La pietra è Gesù. Con la novità del suo messaggio, egli ha sconvolto l’ordine costituito, ha messo in pericolo “il luogo santo e la nazione” (Gv 11,48). Non era tollerabile che egli, laico, privo di autorità, continuasse a rappresentare una minaccia per l’istituzione religiosa. Rivolto ai colleghi, Caifa, con molta logica, aveva concluso: “Non vi rendete conto come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera?” (Gv 11,49).

Dio la pensava diversamente da coloro che si arrogavano il diritto di rappresentarlo e di parlare in suo nome sulla terra. Per Dio Gesù era il servo fedele e, per questo, nel giorno di Pasqua andò a riprenderlo dal sepolcro, lo glorificò e lo pose a fondamento del nuovo tempio.

Concludendo il suo discorso (v. 12), Pietro afferma che in nessun altro nome c’è salvezza. Gesù è l’unico salvatore. Solo chi costruisce la sua vita su di lui e sulla sua parola può essere sicuro di edificare su un fondamento solido e non dovrà temere che l’avvento di nuove dottrine, nuove religioni, nuove ideologie, nuovi umanesimi, nuove scoperte scientifiche possa un giorno rivelarne qualche fragilità.

Seconda Lettura (1 Gv 3,1-2)

Carissimi, vedete 1 quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui.
2 Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

La vita di Dio che il cristiano riceve nel battesimo è una realtà spirituale misteriosa. Parlando con Nicodemo, Gesù l’ha paragonata al vento che non si sa donde venga né dove vada; esiste e la sua presenza non passa inosservata perché produce effetti inequivocabili che tutti possono constatare, ma non è visibile agli occhi (Gv 3,8).

La prima affermazione del brano che ci viene proposto oggi è un richiamo alla gratuità del dono di questa vita divina. La parola di Dio è sempre efficace: se egli chiama qualcuno suo figlio, questi lo diventa realmente.

La figliolanza implica, nel linguaggio biblico, la partecipazione alla vita di colui dal quale si è generati. “Adamo – ricorda la Genesi – generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set” (Gn 5,3). Set, che aveva ricevuto la vita da Adamo, era simile al padre, ne portava impressi i lineamenti. Così il cristiano è, nel mondo, una presenza del divino e, come ogni figlio, riproduce le sembianze del Padre. È per questo che chi non conosce Dio non può neppure conoscere chi da lui è stato generato (v. l). Non desta sorpresa, quindi, che il cristiano non sia capito.

La condizione attuale non è però definitiva. Un velo, costituito dal fatto che viviamo ancora in questo mondo, impedisce di renderci conto di ciò che realmente siamo. Un giorno però il velo sarà tolto e vedremo Dio così come egli è, allora capiremo anche ciò che eravamo già oggi (v. 2).

È questa l’unica prospettiva cristiana per considerare la morte: non come la fine della vita, ma come l’inizio della seconda parte, la migliore, quella in cui i servi di Dio e dell’Agnello “vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà” (Ap 22,3-5).

Vangelo (Gv 10,11-18)

In quel tempo Gesù disse: 11 “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. 12 Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; 13 egli è un mercenario e non gli importa delle pecore.
14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. 16 E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.
17 Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18 Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio”.

Anche dopo essersi installato nella terra di Canaan ed essere divenuto un popolo di agricoltori, Israele ha sempre conservato una grande nostalgia per la vita nomade dei pastori e non ha mai rinunciato ad allevare pecore e capre. La saggezza del beduino, che preferisce il suo gregge ai gioielli e ai tesori, traspare dall’esortazione del libro dei Proverbi: “Abbi cura delle tue mandrie, perché non sono perenni le ricchezze. Sono gli agnelli che ti danno le vesti e i capretti il denaro per comprare un campo, le capre latte abbondante per il cibo della tua famiglia” (Pr 27,23-27).

Il fatto di passare molto tempo in luoghi isolati con il gregge faceva sì che, fra il pastore e le sue pecore, si instaurasse un rapporto affettivo. Il pastore chiamava ogni pecora per nome e questa ne riconosceva la voce. I maggiori pericoli per il gregge erano costituiti dagli animali selvaggi che, nei tempi biblici, popolavano la valle del Giordano: iene e sciacalli, leoni e orsi contro i quali i pastori erano pronti a battersi, armati di fionda e di un bastone robusto, reso più efficace da pezzetti di selce conficcati all’estremità.

Questa era la realtà sociale; non stupisce, quindi, che nella Bibbia venga spesso ripresa l’immagine del pastore. Davide è chiamato da Dio “dagli ovili delle pecore” a pascere gli israeliti e “fu per loro pastore dal cuore integro e li guidò con mano sapiente” (Sl 78,70-72). I re d’Israele sono spesso paragonati a pastori malvagi che, invece di pascere il gregge, pascono se stessi, sfruttano, disperdono e uccidono (Ez 34).

Dio è raffigurato come vignaiolo e agricoltore (Is 27,3; Sl 65), ma, soprattutto, come pastore che guida, difende, alimenta il suo popolo (Sl 80,2; 23), “porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11). Si prende cura di Israele che è stato condotto alla rovina da sovrani indegni e promette: “Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una. Susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra” (Ger 23,3-5). È l’annuncio del messia che sarà un vero pastore, un re secondo il cuore del Signore.

L’affermazione di Gesù “Io sono il buon pastore”, con cui inizia il brano evangelico di oggi, si riferisce, in modo esplicito, all’adempimento di questa profezia. Egli è il pastore inviato da Dio per prendersi cura del popolo che è come un gregge allo sbando (Mc 6,34).

Una prima spiegazione è aggiunta all’allegoria: “Il buon pastore offre la vita per le pecore” (v. 11).

È ben impressa nella nostra mente la parabola della pecorella smarrita, riferitaci da Matteo e da Luca (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) ed è facile associare l’immagine del “buon pastore” a Gesù che, con dolcezza e immensa compassione, va alla ricerca di chi ha sbagliato nella vita.

Nel vangelo di oggi, invece, il “buon pastore” non è colui che accarezza teneramente la pecorella ferita, ma è il lottatore che, a prezzo della propria vita, affronta chiunque mette in pericolo il gregge. Il richiamo non è alla scena bucolica del salmo: “In pascoli di erbe fresche mi fa riposare” (Sl 23,2), ma piuttosto alla figura di Davide che, da giovane, affrontava il leone e l’orso che gli portavano via una pecora: li inseguiva, li abbatteva e strappava la preda dalla loro bocca (1 Sam 17,34-35).

È questa caratteristica di uomo forte e impavido che si batte contro i banditi e contro le bestie feroci che viene ripresa nel vangelo di oggi per presentare Gesù.

La qualifica di “buono” non si riferisce ai sentimenti, non significa tenero, amabile, ma “vero”, “autentico”, “coraggioso”. Gesù è il vero pastore perché è legato in modo così passionale alle sue pecore da essere pronto a sacrificare la vita per loro.

Per dare un risalto ancora maggiore all’immagine, Gesù la contrappone alla figura del mercenario (vv. 12-13).

Gli abitanti di un villaggio, non potendo condurre al pascolo ciascuno le proprie pecore e capre, ricorrevano a un salariato che si prendeva cura delle greggi di tutti. Una legislazione rigorosa ne fissava gli obblighi: doveva affrontare un lupo, due cani, un animale piccolo, ma poteva fuggire davanti a un leone, a un leopardo, a un orso o a un ladro. Nel suo contratto non c’era la clausola di essere disposto a sacrificare la vita per le pecore. Egli non si sentiva legato affettivamente al gregge e, di fronte al pericolo, se appena gli era consentito, fuggiva; non gli interessava la sorte delle pecore, ma lo stipendio.

La similitudine del “buon pastore” non è rivolta solo a chi svolge nella chiesa il ministero della presidenza, ma a ogni cristiano. Ogni discepolo deve avere un cuore da vero pastore, deve coltivare la generosità incondizionata del Maestro nei confronti dell’uomo.

Ha un cuore da mercenario chi si attiene agli obblighi minimi fissati nel contratto, chi sta a disquisire su doveri più o meno eludibili, chi è fedele alle disposizioni della legge per ottenere una ricompensa o evitare una punizione.

Chi ha un cuore come quello di Gesù non fa calcoli, non si chiede dove arrivino i suoi diritti e dove finiscano i suoi doveri, che cosa stabiliscano le norme e quali siano gli accordi stipulati con il padrone. Segue un’unica legge: l’amore “folle” per l’uomo. L’amore non conosce confini, non si ferma di fronte a nessun ostacolo, a nessun rischio, a nessun sacrificio. Chi non ama come ha amato Cristo non capirà mai le sue scelte e le sue proposte, lo giudicherà un sognatore, un illuso, un imprudente, un temerario.

 Nella seconda parte del brano (vv. 14-16) Gesù riprende l’affermazione “Io sono il buon pastore” per aggiungere una seconda caratteristica. Il vero pastore è colui che conosce, una per una, le sue pecore ed è da loro conosciuto.

Nella Bibbia, il verbo conoscere non ha solo il significato di apprendimento; quando è riferito al rapporto fra persone, implica un’esperienza profonda, indica il coinvolgimento completo nell’amore. È una questione di cuore, più che di mente.

Questo vale anche nel rapporto con il Signore. Scrivendo ai galati, Paolo ricorda loro che un tempo non conoscevano Dio, ma erano sottomessi agli idoli, e continua: “Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi?” (Gal 4,9). Se siete entrati in comunione di vita con lui, come la sposa con lo sposo, come potete staccarvi dal suo amore?

Buon pastore è Gesù e chiunque si lasci coinvolgere nell’amore verso Dio e verso i fratelli con la stessa sua passione.

Sembra lontano il giorno in cui l’umanità intera farà questa esperienza di reciproca conoscenza con Dio. Gesù sa che sono ancora molti coloro che non hanno accolto il suo amore: “Ho altre pecore che non sono di quest’ovile”, ma un pastore vero come lui non si rassegnerà mai a perdere una sola delle sue pecore, per questo assicura: “Anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (v. 16).

Se si prende sul serio questa affermazione, diventa arduo sostenere che anche un solo uomo possa sottrarsi all’amore dell’unico pastore.

Nell’ultima parte (vv. 17-18) è sviluppato il tema della libertà, presente in questa dinamica d’amore. Dove ci sono costrizione e timore non compare l’amore, e la paura di Dio è già un peccato.

Gesù ha mostrato il suo amore perché si è donato liberamente: “Nessuno mi tolse la vita, sono io che la offro, perché ho il potere di offrirla ed il potere di riprenderla di nuovo” (v. 18).

“Riprenderla di nuovo” significa che il destino di colui che dona la vita non è la morte, ma la pienezza di vita. Fare di essa un dono è l’unico modo per “ricuperarla”. È lo stesso principio che, con un’altra immagine, verrà ripreso in seguito: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.” (Gv 12,24-25).


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News