Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 23 Giugno 2024.
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Infuria la tempesta e Gesù dorme
Quale parola è in diritto di attendersi dal cristiano chi vive drammi personali e familiari a catena? Epidemie, terremoti, cicloni che colpiscono zone del mondo già devastate dalla fame e dalla miseria, pongono seri interrogativi al credente. Le guerre, le violenze, le ingiustizie, i tradimenti, è vero, vanno attribuiti all’uomo, ma perché l’uomo è così cattivo, non poteva Dio farlo migliore?
In passato si risolveva il problema del male scaricandone le colpe sul diavolo, sulle leggi naturali o ricorrendo alla formula magica: Dio non vuole, ma permette. Ma se il Signore può intervenire nella storia dell’uomo, perché non lo fa?
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L’enigma del male non può essere spiegato con ragionamenti, altrimenti Gesù ce lo avrebbe chiarito. Un giorno, quando la storia del mondo sarà giunta a compimento, ne capiremo il senso, ma ora la risposta di Dio alle accuse che abbiamo il diritto di rivolgergli, gridando, con gli apostoli: “Non t’importa che noi moriamo?”, è una sola ed è la più inattesa. Non si è messo a disquisire, ma è salito sulla nostra stessa barca; sballottato dalla tempesta, insieme con noi, c’è pure lui. Con i poveri ha sperimentato la povertà, con gli esclusi il rifiuto e l’emarginazione; con i delusi ha condiviso l’incomprensione e le lacrime, con i traditi l’amarezza della solitudine e dell’abbandono; insieme agli oppressi ha sopportato l’ingiustizia e con i condannati a morte ha provato lo sgomento e la paura.
Eppure rimane l’impressione che egli dorma. Con il nostro grido, che è preghiera, vorremmo svegliarlo e costringerlo a intervenire. Ma egli è già sveglio, ha solo una diversa visione del pericolo e del modo di affrontarlo e chiede fiducia incondizionata. Siamo sballottati, sì, dalle onde del mare, ma, anche se non ce ne rendiamo conto, siamo accompagnati da lui.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Infuria la tempesta, ma non temo: sulla mia barca ci sei pure tu”.
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Prima Lettura (Gb 38,1.8-11)
1 Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine:
8 “Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando erompeva uscendo dal seno materno,
9 quando lo circondavo di nubi per veste
e per fasce di caligine folta?
10 Poi gli ho fissato un limite
e gli ho messo chiavistello e porte
11 e ho detto: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”.
In tutti i miti della creazione dell’antico Medio Oriente si racconta il drammatico conflitto fra Dio, promotore dell’ordine e della vita, e Yam, il mare, mostro spaventoso che, scatenando la sua straripante potenza, cercava di mantenere nel mondo il caos e la morte. Il mare assurse così a simbolo delle forze negative, contrarie alla vita, nemiche dell’uomo.
Non desta meraviglia che la Bibbia, nata in questo ambiente culturale, abbia conservato, in alcune sue pagine, il ricordo di questo mito. Già nel primo capitolo della Genesi si parla di una massa informe e disabitata, di un abisso avvolto dalle tenebre (Gn 1,2) sul quale Dio interviene per mettere ordine, separando la luce dalle tenebre, l’acqua dalla terra ferma e le acque dolci dalle acque salate.
Rispetto agli dèi che operano nei racconti dei popoli della Mesopotamia, il Dio biblico mantiene però un comportamento del tutto originale. Non è mai coinvolto in un combattimento accanito contro il drago marino, ma si impone senza sforzo, attua ricorrendo alla sua parola, egli “parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste” (Sl 33,9).
Stupito di fronte a questa sorprendente vittoria, il salmista canta: “L’oceano avvolgeva la terra come un manto, le acque coprivano le montagne. Alla tua minaccia sono fuggite. Hai posto un limite alle acque: non lo passeranno, non torneranno a coprire la terra” (Sl 104,5-9).
Il dominio di Dio sul creato si rivela totale e perfetto, perché “domina l’orgoglio del mare e placa il tumulto delle acque” (Sl 89,10). Il suo potere incontrastato apparve soprattutto durante la notte della liberazione dall’Egitto, quando “risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero… e divennero per gli israeliti una muraglia a destra e a sinistra” (Es 14,21.29).
Su questo tema, la lettura di oggi ci propone un brano memorabile, tratto dalla risposta di Dio a Giobbe che pretendeva una spiegazione al grande enigma del dolore.
“Dov’eri tu – gli chiede il Signore – quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza” (Gb 38,4). È l’invito a prendere coscienza della propria condizione di creatura, limitata nel tempo e nello spazio, incapace di penetrare nei grandi misteri dell’universo.
Poi, sempre rivolto a Giobbe, Dio continua ricordando come, quasi per diletto, assunse il pieno controllo delle acque primordiali che minacciavano di sovrastare gli altri elementi. Collocai – dice – il mare al suo posto, fissai per lui confini invalicabili, chiusi le porte con chiavistelli in modo che non potesse più uscire a riportare il disordine; lo privai di tutta la sua mostruosa energia di morte, lo immobilizzai circondandolo di nubi come di una veste e lo avvolsi, come se fosse un neonato, con fasce di caligine folta (v. 9); poi gli impartii un ordine, perentorio: “Fin qui giungerai e non oltre. Qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde” (v. 11).
Sono immagini suggestive, uscite dalla mente e dal cuore di un impareggiabile poeta; comunicano, nitida, la sensazione del perfetto, incontrastato dominio di Dio su tutto ciò che minaccia l’ordine del creato e la vita degli uomini. Sono immagini che ci permettono di comprendere la ragione dello stupore dei discepoli, quando si sono resi conto che Gesù comandava perfino alle onde del mare e queste gli obbedivano.
Seconda Lettura (2 Cor 5,14-17)
Fratelli 14 l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti.
15 Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. 16 Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così.
17 Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.
Paolo è sempre vissuto in modo coerente con il messaggio che annunciava, tuttavia, a volte, si è anche mostrato fin troppo duro e intransigente e questo limite del suo carattere gli ha alienato spesso le simpatie di molti fratelli di fede. A Corinto, soprattutto, alcuni cristiani non lo sopportavano, criticavano il suo impegno apostolico, screditavano la sua dottrina e, per conquistarsi la fiducia della comunità, ostentavano esperienze mistiche, rapimenti estatici, visioni, convinti com’erano di poter così provare, in modo inconfutabile, che la loro predicazione e la loro vita avevano l’approvazione di Dio.
Paolo avrebbe potuto rispondere, come aveva fatto in altra occasione (2 Cor 12,1-6), che, quanto a esperienze spirituali elevate, non si sentiva inferiore a nessuno, tuttavia non era su questo piano che accettava il confronto. Non sono i fenomeni straordinari che consentono di identificare il vero discepolo e ne comprovano l’autenticità del messaggio. Ciò che qualifica il cristiano è la dedizione disinteressata a servizio della comunità, a imitazione del Maestro, che non è vissuto per se stesso, ma ha donato la sua vita per tutti (vv.14-15). In questa imitazione, Paolo sa di non avere rivali, per questo, con una certa audacia, raccomanda ai corinti: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11,1; 4,16).
Prima della conversione – riconosce – ho conosciuto Gesù “secondo la carne”, cioè l’ho giudicato secondo i criteri umani, appresi dai rabbini e l’ho giudicato un “maledetto da Dio”, perché condannato dalle legittime autorità del mio popolo (Gal 3,13). Ora, dopo aver ricevuto, sulla via di Damasco, la luce dal cielo, non lo conosco più così (v. 16); ho capito che egli “ci ha riscattati dalla maledizione, diventando egli stesso maledizione per noi” (Gal 3,13).
Da quel venerdì santo tutto è cambiato, è sorto un mondo nuovo nel quale entra chiunque rinuncia a pensare a se stesso e si apre all’amore disinteressato per gli altri. Così, “se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono sorte di nuove” (v. 17).
Vangelo (Mc 4,35-41)
35 In quel medesimo giorno, verso sera, Gesù disse ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva”. 36 E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
37 Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. 38 Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che moriamo?”.
39 Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. 40 Poi disse loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”.
41 E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”.
Alcuni prodigi che vengono narrati nei vangeli lasciano perplessi: un fico è fatto seccare perché non produce frutti fuori stagione (Mc 11,13), cinque o sei ettolitri di acqua sono trasformati in vino (Gv 2,1-11), Gesù cammina sulle acque e Pietro tenta di imitarlo (Mt 14,22-33), Pietro paga la tassa per il tempio con una moneta d’argento trovata nella bocca di un pesce (Mt 17,24-27). Si tratta di racconti che vanno letti con molta circospezione perché, per redigerli, gli evangelisti sono ricorsi a immagini e hanno introdotto riferimenti biblici che non sono sempre facili da cogliere.
La tempesta sedata, che ci viene proposta nel brano evangelico di oggi, rientra in questa categoria di miracoli un po’ particolari e l’errore che va evitato è quello di considerarla un resoconto, esatto fin nei minimi dettagli, di un fatto di cronaca. Alcune stranezze saltano subito agli occhi: durante la pericolosa traversata Gesù dorme mentre i discepoli cercano, da soli, disperatamente, di lottare contro le onde del mare; ma è inverosimile che Gesù riesca a riposare tranquillo su una piccola barca, piena d’acqua, in balia delle onde. Poi, è sera, Gesù e i discepoli sono stanchi e sarebbe l’ora di tornare a casa, a Cafarnao; non si capisce cosa vadano a fare dall’altra parte del lago dove non pare che avessero degli amici; dall’episodio seguente, infatti, risulta chiaro che, in quella regione, non conoscono alcuno (Mc 5,17). I discepoli si rivolgono al Signore perché li salvi, quindi mostrano di credere in lui, invece vengono rimproverati perché non hanno fede. Infine, dopo che il vento è cessato e si è fatta grande bonaccia, gli apostoli, invece di rallegrarsi, “sono presi da grande timore”.
Questi e altri particolari sono un tacito invito ad andare al di là del semplice dato di cronaca e a cercare più in profondità, per scoprire il vero messaggio del racconto. Siamo di fronte a un brano di teologia che contiene numerosi richiami biblici e l’obiettivo di Marco non è mostrare che Gesù è capace di compiere prodigi straordinari, ma svelarci progressivamente la sua identità. L’evangelista vuole rispondere alla domanda che, fin dall’inizio della vita pubblica, tutti si sono posti: “Chi è costui?”.
Cominciamo col decodificare il linguaggio impiegato da Marco. La barca, il luogo verso il quale è diretta, le altre barche che accompagnano quella dei discepoli, le onde del mare, l’oscurità della notte, il sonno di Gesù, il vento, la tempesta e il timore che coglie gli apostoli sono immagini ben note ai lettori del vangelo, perché ricorrono spesso nella Bibbia. Vediamo di richiamarne il significato.
Il racconto inizia con due dettagli significativi: il tempo in cui avviene il fatto e la meta del viaggio.
È sera. La giornata in cui Gesù ha annunciato il regno di Dio si è conclusa, i discepoli entrano nella barca con il Maestro e si dirigono verso l’altra riva. Dove vanno?
Il seguito del vangelo (Mc 5,1) ne indica la meta: la terra dei geraseni, il territorio dei pagani. Essendo allevatori di porci, i geraseni non potevano che essere pagani, i giudei, infatti, non mangiano animali immondi.
Nella letteratura antica, l’immagine della barca indica una comunità o un’associazione. Nel nostro racconto rappresenta la comunità cristiana che, al termine della giornata, cioè alla fine della vita terrena di Gesù, è invitata dal Maestro a dirigersi verso “l’altra riva”, ad andare, cioè, verso le nazioni pagane. La barca deve portare Cristo anche a loro, ma, durante la traversata, si scatena una furiosa tempesta che rende impossibile la prosecuzione del viaggio, anzi, mette in pericolo la stessa barca e la vita di coloro che sono a bordo.
Le altre barche che accompagnano quella in cui si trova Gesù con i Dodici, sono introdotte per indicare che, al tempo di Marco, erano molte le comunità cristiane coinvolte nell’avventurosa traversata, al seguito degli apostoli.
La difficoltà dell’impresa è sottolineata da un altro particolare, l’oscurità della notte. Nella Bibbia la tenebra fitta ha sempre una connotazione negativa. All’inizio del mondo, prima che Dio soggiogasse il mare, tutto era avvolto nell’oscurità (Gn 1,2).
Proprio durante la notte, quando il buio e le forze del male e della morte sembrano dominare incontrastate, Dio è solito intervenire per far esplodere la vita. Era accaduto nella notte della liberazione dall’Egitto, come canta l’autore del libro della Sapienza: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente scese dal cielo” (Sap 18,14-15). In una notte ancora più buia, quella del sepolcro, Dio manifestò la sua forza di salvezza e di vita (Mt 28,2-6).
La scena che segue (vv. 37-38) ricalca volutamente quella di Giona, il profeta inviato a Ninive per portare il messaggio del Signore ai pagani. Durante la tempesta anche Giona si era coricato in fondo alla nave e dormiva profondamente (Gio 1,5).
Nel nostro racconto è Gesù che dorme e, nota l’evangelista, si trovava a poppa, al posto del timoniere. Un pilota che, in una situazione di estremo pericolo, si assopisce e si disinteressa di ciò che accade, merita un severo rimprovero e gli apostoli glielo muovono: “Non t’importa che periamo?”. La frase è più densa di quanto sembri. I discepoli disgiungono la loro condizione da quella del Maestro: essi periscono, lui no, non perisce, anzi, pare si trovi in una condizione in cui non può perire e non s’interessa di quanto accade.
Ancora due rilievi. Il primo riguarda il sonno che, nella Bibbia, è spesso impiegato per indicare la morte (Gb 14,12; Sir 46,19). Anche Gesù lo riprende in senso figurato: “Il nostro amico Lazzaro si è addormentato” (Gv 11,11); “La fanciulla non è morta, ma dorme” (Mc 5,39-40). Il secondo si riferisce al cuscino che, in mezzo a quella baraonda, stranamente, rimane sotto la testa di Gesù. La presenza del cuscino cessa di sorprendere se si tiene presente che il termine greco, proskephalaion, con cui è chiamato, indica anche il guanciale posto sotto la testa di un defunto.
Ora risulta chiaro il significato del sonno di Gesù: si riferisce alla sua morte e si capisce anche il valore teologico di tutta la scena.
Ad essere sballottati dalle onde – che rappresentano i drammi della vita, le persecuzioni, le tensioni e i dissensi all’interno della comunità ecclesiale – sono i discepoli. Il Maestro ha concluso la sua giornata in questo mondo; accompagna i suoi discepoli, ma non interviene mai direttamente nella storia, dà la sensazione che voglia lasciare che tutto si svolga come se egli non fosse presente.
I cristiani possono, in certi momenti, sentirsi soli di fronte ai problemi, alle avversità, ai fallimenti e chiedersi: “Dov’è Dio? Dov’è Cristo? Perché non manifesta il suo potere?”. Lo sentono lontano o addirittura assente, il suo silenzio li sconcerta e incute paura. Vorrebbero gridargli, con il salmista: “Svegliati, Signore, perché dormi?” (Sl 44,24).
L’equivoco nasce dal fatto che si vorrebbe avere a disposizione un Dio che interviene, su comando, per alterare i rapporti di forza che esistono nel mondo, che si allea con chi subisce l’ingiustizia per sconfiggere e umiliare chi la commette.
Gesù ci rivela un Dio che “dorme”, che lascia le cose come sono, che non ha nulla da temere di fronte allo scatenarsi della violenza del male, che non ha paura di perdere il controllo della situazione. È un Dio che lascia fare, permette che le invidie, le rivalità, le menzogne, le ingiustizie si scatenino e che gli avvenimenti abbiano il loro corso. Poi, quando il male sembra aver detto l’ultima parola, egli scopre le carte e mostra che ha vinto lui. Si è servito delle stesse forze del male per attuare il suo progetto di salvezza e di amore. Noi gridiamo a lui per trascinarlo nelle nostre angosce, egli ci risponde introducendoci nella sua pace.
È in quest’ottica che ha una spiegazione il rimprovero di Gesù ai discepoli. Essi hanno commesso l’errore di ricordarsi di lui solo quando si sono trovati in una situazione disperata. Chi ha fede vive in costante dialogo con Cristo e con la sua parola, non lo chiama solo quando le cose vanno male. Gli apostoli hanno pensato di dover contare unicamente sulle loro capacità, non hanno capito che Gesù era accanto a loro, sempre, come aveva promesso (cf. Mt 28,20). Era con loro, ma in un modo diverso, perché si era addormentato… nel sonno della morte.
Ho lasciato per ultimo l’insegnamento più importante del brano. Al termine del racconto Marco nota che i discepoli sono presi da grande timore e si chiedono l’un l’altro: “Chi è costui al quale perfino il mare ed il vento obbediscono?” (v. 41).
Hanno le loro buone ragioni per porsi questa domanda perché, dalle sacre Scritture, hanno appreso che solo Dio ha il potere di imporsi alle onde del mare. Se Gesù possiede questa autorità divina, significa che egli è il Signore. Ecco la ragione per cui, come Mosè e come tutti coloro che hanno avuto un incontro con Dio, anche i discepoli sono colti da “timore”. Non si tratta della paura, dello spavento che si impossessa di chi si trova di fronte a un pericolo, ma dello stupore di chi ha riconosciuto in Gesù il Signore capace di dominare tutte le potenze che minacciano la vita.
Dopo che è stato decodificato il linguaggio biblico di cui è intriso, il brano rivela il suo genere letterario. Non è un racconto di miracolo, ma una teofania, una manifestazione in Gesù della forza, del potere salvifico di Dio ed è una professione di fede di Marco e delle comunità primitive nella divinità di Cristo.