p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 20 Marzo 2022

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 20 Marzo 2022.
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Convertirsi è ritrovare la propria identità

“Così non si può andare avanti, tutti se ne approfittano, tutti imbrogliano, i soprusi sono sistematici, insopportabili e per giunta non s’intravede alcuna prospettiva nuova”. Abbiamo sentito spesso lamentele come queste.

Lagnarsi è facile, più difficile è proporre soluzioni. Deprecare le violazioni del diritto, stilare comunicati ufficiali, proclamare la propria indignazione può anche apportare qualche beneficio, ma il più delle volte le denunce, specie quando si riducono a gesti formali e a dichiarazioni diplomatiche, rimangono lettera morta.

Di fronte all’ingiustizia qualcuno si lascia prendere da un’incontenibile irritazione, dal risentimento, dalla frenesia della vendetta e giunge a compiere gesti inconsulti. Il ricorso alla violenza non ha mai dato risultati positivi, anzi ha sempre provocato guai, spesso irreparabili.

C’è un’altra scelta possibile: il disinteresse. E’ l’opzione di chi si rinchiude nel proprio piccolo mondo, evita di lasciarsi coinvolgere, anche solo emotivamente, dai drammi degli altri, a meno che gli avvenimenti politici non abbiano qualche ripercussione sulla sua vita personale o familiare.

Che fare? La realtà sociale, politica, economica del mondo c’interpella, non possiamo disinteressarcene, estraniarci, osservarla dall’esterno come spettatori inerti. Ma come intervenire?

C’è un solo modo corretto: lo suggerisce oggi la parola di Dio.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Buono e pietoso è il Signore. Egli libera da tutte le colpe e guarisce tutte le malattie”.

Prima Lettura (Es 3,1-8a.13-15)

1 In quei giorni Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
2 L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava.
3 Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”. 4 Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”. 5 Riprese: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”. 6 E disse: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio.
7 Il Signore disse: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. 8 Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele”.
13 Mosè disse a Dio: “Ecco io arrivo dagli israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?”. 14 Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. Poi disse: “Dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi”. 15 Dio aggiunse a Mosè: “Dirai agli israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione”.

Israele ha conosciuto il suo Dio anzitutto come liberatore. Solo in seguito ha scoperto che egli è anche padre, madre, sposo, re, pastore, guida, alleato… La lettura racconta come è cominciata questa rivelazione del Signore al suo popolo.

Mosè è nel deserto del Sinai. Si trova lì perché alcuni anni prima ha combinato un guaio serio: ha visto un uomo del suo popolo maltrattato da un sovrintendente egiziano, è intervenuto in sua difesa e ha ucciso l’aggressore (Es 2,11-15).

Ha un temperamento impulsivo Mosè, non sopporta prevaricazioni, angherie, sopraffazioni nei confronti dei più deboli. Lo dimostra anche nel deserto dove è fuggito. Un giorno è seduto presso un pozzo, giungono delle ragazze per abbeverare il gregge ed alcuni pastori le scacciano. Non tollera il sopruso, balza in piedi, fa a botte con i ribaldi e aiuta le pastorelle ad abbeverare il bestiame (Es 2,16-22).

La prudenza e l’esperienza, ad un certo punto, gli suggeriscono di darsi una calmata, di non immischiarsi nelle faccende degli altri. E’ doloroso assistere impotenti alle ingiustizie perpetrate contro i deboli, ma che fare? Se si interviene si rischia di venire coinvolti in problemi troppo seri. Meglio non pensarci e lasciare perdere!

Mosè si rifugia presso Ietro, il padre delle ragazze, ne sposa la figlia e inizia una vita povera ma tranquilla. Ogni giorno esce per condurre al pascolo il gregge del suocero e desidera solo di essere lasciato in pace.

Ma potrà uno come lui dimenticare i fratelli israeliti che in Egitto sono sottoposti a continue vessazioni da parte dei loro padroni?

Dio, che conosce i suoi sentimenti e i suoi pensieri, un giorno decide di rivelargli il suo progetto: vuole liberare il suo popolo dalla schiavitù.

Il racconto della chiamata di Mosè è costruito secondo lo schema classico delle vocazioni e con le immagini usuali per presentare le manifestazioni di Dio.

Mosè sta pascolando il gregge del suocero presso il monte Oreb. All’improvviso vede un roveto che brucia senza consumarsi. Si avvicina e sente la voce di Dio che, dopo averlo invitato a togliersi i calzari, gli dice: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco le sue sofferenze e sono sceso per liberarlo” (vv.7-8).

Il fuoco è una delle immagini più comuni nella Bibbia per indicare la presenza di Dio: nel deserto il Signore guidava il suo popolo “con una colonna di fuoco” (Es 13,21), “scendeva nel fuoco” (Es 19,18), “la sua voce parlava dal fuoco” (Dt 4,33).

Anche qui il fuoco indica la voce di Dio che rivela al suo servo la missione difficile e rischiosa cui è chiamato.

Il roveto ardente che non si consuma esprime molto bene la “fiamma di Dio” che arde interiormente e non dà tregua a Mosè. E’ la stessa di cui parla Geremia: “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9).

L’immagine del roveto potrebbe essere stata suggerita all’autore biblico da un fenomeno curioso che avviene nel deserto: dal dictamus albus – un arbusto alto un metro – defluiscono oli essenziali che, nelle giornate molto calde, si incendiano.

I sandali completano il simbolismo della scena. Essendo fatti con la pelle di un animale morto, sono impuri e non possono essere introdotti in un luogo santo dove ha accesso solo ciò che richiama la vita (anche oggi devono essere tolti prima di entrare in una moschea).

Dicendo che Mosè è stato invitato a togliersi i sandali, l’autore sacro vuole affermare che egli è entrato in contatto con Dio. L’ispirazione che ha avuto non era una sua fantasia, una sua velleità, ma proveniva dal Signore.

Ora è possibile tentare di ricostruire ciò che può essere accaduto. Nella solitudine e nel silenzio del deserto, mentre forse rifletteva sulla sorte del suo popolo in Egitto, Mosè è stato illuminato. Dio lo ha introdotto nel suo mondo, gli ha instillato nel cuore i suoi stessi sentimenti, la sua passione per la libertà degli oppressi. Gli ha fatto capire che, per realizzare il suo sogno, aveva bisogno di uno come lui.

In questa esperienza spirituale intensa e profonda, Mosè si è reso conto anche delle difficoltà che un’impresa tanto ardua presentava e ha esposto al Signore la sua obiezione: “Ecco, io vado dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma essi mi diranno: come si chiama? Io cosa risponderò loro?” (v.13).

Nella seconda parte della lettura (vv.13-15) il Signore risponde rivelando il suo nome. Dice a Mosè: riferirai agli israeliti “Io sono colui che sono” o meglio Io sarò colui che sarò (questa è la traduzione più esatta).

Perché Dio vuole essere chiamato in un modo così strano? Che significa questo nome che ricorre ben 6.828 volte nella Bibbia? Vuole dire: vi renderete conto chi io sarò; vedrete da ciò che farò chi sono io.

Cosa vedranno gli israeliti? Non certo un Dio che se ne sta tranquillo in paradiso, impegnato a mantenere in ordine la contabilità dei peccati, che non vuole essere disturbato, che si disinteressa di ciò che accade sulla terra.

Il Dio che si rivelerà a Israele sarà un Dio che vive con passione i problemi del suo popolo, che non tollera l’oppressione dei deboli, che interviene per liberare.

Notavano i rabbini che il testo sacro non dice che gli israeliti hanno gridato al Signore, ma che egli ha osservato la miseria del suo popolo in Egitto e ha udito il suo grido. Gli israeliti gridavano per il dolore. Dio ha sentito quel lamento come un’invocazione rivolta a lui e ha deciso di aiutarli.

Dio non cambia nome. I suoi sentimenti nei confronti di chi soffre, di chi subisce ingiustizia, di chi è sottoposto a qualunque forma di oppressione e di abuso rimangono gli stessi. Non cambia nemmeno il modo con cui egli porta a compimento le sue liberazioni: si serve dei suoi angeli – è così che è chiamato Mosè (Es 23,20.23) – compie le sue opere attraverso coloro che si lasciano educare dalla sua parola, che coltivano nel cuore i suoi sentimenti e i suoi pensieri e che non hanno paura di correre rischi.

Seconda Lettura (1 Cor 10,1-6.10-12)

1 Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, 2 tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare, 3 tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4 tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5 Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto.
6 Ora ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Fratelli, 10 Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore. 11 Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12 Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.

La comunità di Corinto è abbastanza buona, tuttavia, come succede ovunque, ci sono anche degli aspetti negativi: dissensi, immoralità, invidie. Alcuni cristiani sono convinti che basti il battesimo per essere sicuri della salvezza. Paolo si rende conto che i corinti stanno cullandosi in una pericolosa illusione.

Per correggere questa falsa certezza porta l’esempio del popolo d’Israele. Dice: tutti gli israeliti hanno creduto in Mosè e lo hanno seguito; hanno attraversato il mar Rosso, sono stati sotto la nube, hanno mangiato la manna e bevuto l’acqua fatta scaturire dalla roccia; ma, a causa delle loro infedeltà, nessuno di loro è entrato nella Terra Promessa.

La stessa cosa può accadere ai cristiani. Essi devono tenere presente che i favori di Dio non producono risultati in modo automatico e quasi magico. Non basta aver creduto in Cristo (nuovo Mosè), essere stati battezzati (il passaggio del mar Rosso), aver ricevuto lo Spirito (la protezione della nuvola), essersi cibati dell’Eucaristia (il Pane ed il Vino corrispondono alla manna e all’acqua del deserto). E’ necessaria una vita coerente, altrimenti anch’essi possono perdersi, come è accaduto agli israeliti nel deserto.

Vangelo (Lc 13,1-9)

1 In quello stesso tempo si presentarono a Gesù alcuni a riferirgli circa quei galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. 2 Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei, per aver subito tale sorte? 3 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4 O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5 No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.
6 Disse anche questa parabola: “Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7 Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? 8 Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime 9 e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo taglierai”.

Nella prima parte del brano (vv.1-5) vengono riferiti due fatti di cronaca: un crimine commesso da Pilato e l’improvviso crollo di una torre presso la piscina di Siloe.

Pilato non era un uomo dal cuore tenero. Gli storici tramandano vari episodi drammatici che lo hanno avuto come protagonista. Il Vangelo di oggi ne racconta uno.

Alcuni pellegrini venuti dalla Galilea per offrire sacrifici nel tempio, probabilmente in occasione della Pasqua, vengono coinvolti in un fatto di sangue.

La Pasqua celebra la liberazione dall’Egitto, è quindi inevitabile che risvegli in ogni israelita aspirazioni alla libertà e acuisca il sentimento di rivalsa contro l’oppressione romana. E’ possibile anche che questi galilei, magari un po’ fanatici, abbiano prima scambiato qualche battuta un po’ pesante con le guardie, poi che abbiano compiuto qualche gesto provocatorio e infine che dalle parole siano passati a vie di fatto: qualche spintone e una scazzottata.

Pilato che, durante le grandi feste, è solito trasferirsi da Cesarea a Gerusalemme per assicurare l’ordine e prevenire sommosse, non tollera nemmeno l’accenno alla ribellione: fa intervenire i soldati che, senza alcun rispetto per il luogo santo, massacrano i malcapitati galilei. Un gesto brutale e sacrilego, un oltraggio al Signore, una provocazione nei confronti del popolo che considera il tempio dimora del suo Dio. Lì persino i sacerdoti, anche d’inverno, devono camminare scalzi.

Perché il Signore non ha incenerito i responsabili di questo crimine? I farisei hanno una loro risposta: sostengono che non c’è castigo senza colpa. Se Dio ha voluto che quei galilei fossero colpiti dalla spada, significa che erano carichi di peccati. Ma come accettare questa spiegazione? Il peccatore è Pilato, i malvagi sono i soldati romani.

Qualcuno va a riferire a Gesù l’accaduto. Forse pensa di strappare dalla sua bocca un severo giudizio di condanna, una presa di posizione antiromana. Qualcuno pensa di coinvolgerlo in una rivolta armata. Di fronte ad un simile crimine non può certo esortare alla pazienza e al perdono! Farà almeno una dichiarazione sferzante contro Pilato.

Gesù sorprende i suoi interlocutori esagitati e sconvolti: non perde la calma, non si lascia sfuggire parole incontrollate. Anzitutto esclude che ci sia alcuna relazione fra la morte di queste persone e le colpe da loro commesse; poi invita a cogliere una lezione da questo avvenimento: va letto – dice – come un richiamo alla conversione.

Per chiarire meglio il suo pensiero ricorda un altro fatto di cronaca: la morte di diciotto persone, provocata dal crollo di una torre, avvenuto probabilmente durante la costruzione di un acquedotto presso la piscina di Siloe. Queste persone – dice Gesù – non sono state punite a causa delle loro colpe: sono morte per una fatalità, al loro posto potevano essercene altre. Anche questo avvenimento deve essere letto come un richiamo alla conversione.

La risposta di Gesù sembra eludere il problema. Perché egli non prende posizione di fronte al massacro? Sorprende la sua risposta perché egli è sempre stato molto concreto e non ha certo paura di dire ciò che pensa.

Le strutture oppressive (e quella di Pilato è tale) in genere sono molto solide, hanno radici profonde, si difendono con mezzi potentissimi. E’ davvero un’illusione pensare che possano venire rovesciate da un momento all’altro. Qualcuno crede che il ricorso alla violenza possa essere un modo efficace, rapido e sicuro per ristabilire la giustizia. E’ la peggiore delle illusioni! L’uso della forza non produce nulla di buono, non risolve i problemi, ne crea soltanto di nuovi e più gravi.

Gesù non si pronuncia direttamente sul crimine commesso da Pilato. Non vuole lasciarsi coinvolgere in quelle inutili conversazioni in cui ci si limita ad imprecare e a maledire. Egli non è certo insensibile alle sofferenze ed alle disgrazie, si commuove fino alle lacrime per amore della sua patria. Tuttavia sa che l’aggressività, lo sdegno, l’ira, l’odio, il desiderio di vendetta non servono a nulla, anzi, sono controproducenti. Questi sentimenti portano solo a gesti sconsiderati che complicano ancora più la situazione.

Il richiamo di Gesù alla conversione è un invito a cambiare maniera di pensare.

I giudei coltivano sentimenti di violenza, di vendetta, di rancore contro gli oppressori. Questi non sono i sentimenti di Dio. E’ urgente che rivedano la loro posizione, che rinuncino alla fiducia che ripongono nell’uso della spada. Purtroppo non sono disposti alla conversione e così, quarant’anni più tardi, periranno tutti (colpevoli e innocenti) in un nuovo massacro.

Gesù non cerca di sfuggire al problema, propone una soluzione diversa. Rifiuta i palliativi. Invita a intervenire alla radice del male. E’ inutile illudersi che possa cambiare qualcosa semplicemente sostituendo coloro che detengono il potere. Se i nuovi arrivati non hanno un cuore nuovo, se non seguono una logica diversa, tutto rimane come prima. Sarebbe come cambiare gli attori di uno spettacolo senza modificare il testo che devono recitare.

Ecco la ragione per cui Gesù non aderisce all’esplosione collettiva di sdegno contro Pilato. Egli invita alla conversione, propone un cambiamento di mentalità. Solo persone divenute diverse, solo persone dal cuore nuovo possono costruire un mondo nuovo. Questa è la soluzione definitiva.

Quanto tempo si ha a disposizione per operare questo cambiamento di mentalità? Può essere dilazionato di qualche mese, di qualche anno? A queste domande Gesù risponde nella seconda parte del Vangelo di oggi (vv.6-9) con la parabola del fico.

 Nella Bibbia si parla spesso di questa pianta che, due volte l’anno, in primavera e in autunno, dà frutti dolcissimi. Nei tempi antichi, era il simbolo della prosperità e della pace (1 Re 4,25; Is 36,16). Nel deserto del Sinai gli israeliti sognavano una terra con abbondanti sorgenti d’acqua, campi di grano e… alberi di fico (Dt 8,8; Nm 20,5).

Il messaggio della parabola è chiaro: da chi ha ascoltato il messaggio del Vangelo, Dio si attende frutti deliziosi e abbondanti. Non vuole pratiche religiose esteriori, non si accontenta di apparenze (in primavera, il fico dà frutti, prima ancora delle foglie), ma cerca opere di amore.

A differenza degli altri evangelisti che parlano di un fico sterile che è fatto seccare all’istante o quasi (Mc 11,12-24; Mt 21,18-22), Luca, l’evangelista della misericordia, introduce un altro anno di attesa, prima dell’intervento definitivo. Egli presenta un Dio paziente, tollerante con la debolezza umana, comprensivo per la durezza della nostra mente e del nostro cuore.

Questo atteggiamento longanime però non va inteso come indifferenza di fronte al male, non è un’approvazione della negligenza, del disinteresse, della superficialità. Il tempo della vita è troppo prezioso perché se ne possa sprecare anche un solo istante. Non appena si scorge la luce di Cristo è necessario accoglierla e seguirla, immediatamente.

La parabola è un invito a considerare la Quaresima come un tempo di grazia, come un nuovo “anno prezioso” che viene concesso al fico (ogni uomo) per dare frutti.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News