p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 2 Ottobre 2022

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 2 Ottobre 2022.
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Scorgere Dio nella nostra storia

Nella Bibbia non si dice mai che Abramo sia entrato in un santuario per pregare, eppure egli è ritenuto non soltanto il padre dei credenti, ma anche il modello dell’uomo che prega. Se per pregare è necessario credere, per credere bisogna pregare.

Tutta la sua vita è segnata dalla preghiera: non ha preso alcuna iniziativa se non dopo aver ascoltato la parola del Signore, non ha fatto un passo senza aver ricevuto dal suo Dio l’indicazione del cammino.

La sua storia è segnata da un costante dialogo con il Signore: “Il Signore disse ad Abram: vattene… allora Abram partì” (Gen 12,1.4); “La parola del Signore fu rivolta ad Abram in visione… e Abram rispose: Signore che mi darai?” (Gen 15,1.2); “Poi il Signore apparve a lui alle querce di Mamre… ed egli si prostrò a terra” (Gen 18,1-3); “Dio mise alla prova Abramo… e Abramo rispose: eccomi!” (Gen 22,1)…

Questo dialogo ha alimentato la fede di Abramo, lo ha disposto ad accogliere la volontà di Dio, gli ha fatto credere nel suo amore nonostante ogni apparenza contraria.

Molti eventi della nostra vita sono enigmatici, incomprensibili, illogici e sembrano dar ragione a chi dubita che Dio sia presente e accompagni la nostra storia.

In questi momenti la nostra fede è messa a dura prova e ci verrebbe spontaneo gridare al Signore e implorare: “Ascolta la nostra voce, intendi il nostro lamento”.

Egli ascolta sempre la nostra voce, difficile per noi riuscire a percepire la sua.

“Fa che noi ascoltiamo Signore la tua voce” – è l’invocazione che gli dobbiamo rivolgere.

Apri il nostro cuore, aiutaci a rinunciare alle nostre attese, alle nostre sicurezze, ai nostri progetti e fa che accogliamo i tuoi.

È questa la fede che salva.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Fa’ che noi ascoltiamo Signore la tua voce”.

Prima Lettura (Ab 1,2-3; 2,2-4)

Abacuc è contemporaneo di Geremia. La situazione sociale, politica e religiosa in cui vivono è la stessa. L’iniquità regna nel paese: “Tutti passano da un delitto all’altro… il fratello inganna il fratello… Ognuno si beffa del suo prossimo, nessuno dice la verità… angheria sopra angheria, inganno su inganno” (Ger 9,2-5). “Dal più piccolo al più grande, tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna” (Ger 8,10). Il re è un imbelle, un incapace, ama il lusso, sfrutta gli operai per costruire il suo palazzo, non tutela la causa del povero e del misero (Ger 22,13-17). Le ingiustizie, i soprusi, le prevaricazioni sono sotto gli occhi di tutti e – questo è scandaloso! – Dio lascia correre. Pare che si disinteressi di ciò che accade sulla terra. Perché non interviene? Perché non soccorre gli oppressi?

Attenti, sensibili, spiritualmente maturi, sia Geremia che Abacuc cercano di capire quello che sta accadendo e non temono di aprire un contenzioso con Dio.

Gli chiedono il perché del suo silenzio e della sua impassibilità: “Tu sei giusto, Signore, e non posso discutere con te. Tuttavia vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Dimmi: perché gli empi prosperano? Perché ai malvagi va sempre bene?” (Ger 12,1).

Anche il popolo vuole una spiegazione, per questo si rivolge ad Abacuc e gli chiede di consultare il Signore. Turbato e confuso, in quella stessa notte il profeta si raccoglie in preghiera e dirige a Dio le domande contenute nella prima parte della lettura di oggi: fino a quando, Signore, continuerai a tacere? Fino a quando tollererai l’ingiustizia? Perché rimani spettatore inerte di fronte alla rapina, alle violenze, alle liti, alle contese? (Ab 1,2-3).

Stupenda la preghiera di Abacuc! Egli ha il coraggio di dire al Signore che non è d’accordo con lui, che non capisce la sua tolleranza nei confronti dei malvagi; reclama per la sua passività e il suo silenzio; osa chiedergli conto del suo modo di governare il mondo e gli eventi della storia.

Dopo aver esposto le recriminazioni sue e del popolo, il profeta tace.

Tocca a Dio rispondere, è lui che ora è chiamato a giustificare il suo operato.

Abacuc rimane in attesa come fanno le sentinelle che scrutano l’orizzonte lontano per scorgere anche il più piccolo movimento. Aspetta un segno che preluda a un cambiamento (Ab 2,1).

La risposta del Signore non si fa attendere ed è contenuta nella seconda parte della lettura (Ab 2,2-4).

Dio ordina ad Abacuc: prendi nota, scrivi ciò che sto per dire perché voglio che rimanga documentato (v.2). Ecco la promessa: a breve termine non accadrà nulla, non ci saranno cambiamenti immediati. Passerà un certo tempo prima che giunga la liberazione. Guai però a scoraggiarsi, diffidare, rassegnarsi all’ingiustizia, adeguarsi al comportamento dei malvagi (v.3).

Una risposta sorprendente: Dio non dà alcuna spiegazione, chiede solo fiducia incondizionata. Capisce le rimostranze del profeta e del popolo, sa che non sono in grado di comprendere le ragioni della sua tolleranza, tuttavia assicura che un giorno apparirà a tutti, con chiarezza, ciò che oggi soltanto a lui è dato di vedere: l’empio – che apparentemente prospera – in realtà sta ponendo le basi della sua rovina. Davanti al giusto, davanti a colui che si fida del Signore, si spalancano invece orizzonti di vita (v.4).

Seconda Lettura (2 Tm 1,6-8.13-14)

La seconda lettera a Timoteo è diretta soprattutto a coloro che, nella comunità cristiana, svolgono il ministero della presidenza.

Il nostro brano inizia con l’invito a Timoteo di “ravvivare” il dono di Dio che gli è stato conferito mediante l’imposizione delle mani (v.6).

Il ministero che è chiamato a svolgere – testimoniare la verità – richiede forza e coraggio. Timoteo, purtroppo, è timido e riservato, tanto che Paolo un giorno deve raccomandare ai corinti di non metterlo in soggezione (1 Cor 16,10), ecco la ragione per cui gli ricorda che lo Spirito è fonte di forza, non di timidezza (vv.7-8).

Nella seconda parte della lettura (vv.13-14) per due volte l’Apostolo raccomanda a Timoteo – e indirettamente a tutti gli operatori pastorali delle comunità – di conservare integro il deposito della fede.

Alla fine del I secolo d.C. cominciano a infiltrarsi nelle comunità cristiane dei falsi maestri che diffondono dottrine erronee, bizzarre, fantasiose. L’adesione a tali false interpretazioni del Vangelo porta a gravi deviazioni sia teologiche sia morali. Coloro che presiedono alla vita della comunità devono vigilare, proteggere i fedeli particolarmente esposti e tentati di aderire alle nascenti eresie.

La raccomandazione di mantenersi fedeli ai principi della fede non deve essere confusa con l’immobilismo spirituale. Non è un invito a non cambiare nulla nella vita della comunità. Le interpretazioni nuove e più approfondite della Bibbia, le spiegazioni che rendono il Vangelo più comprensibile all’uomo d’oggi, non sono deviazioni dalla fede. Le nuove forme liturgiche, i nuovi testi del catechismo, non sono un’infedeltà alla tradizione.

Il bambino è fatto per svilupparsi, crescere, diventare adulto. Gli farebbe violenza chi lo costringesse a rimanere sempre com’è.

Anche la parola di Dio deve crescere (At 12,24), anche la fede deve maturare.

È la fedeltà al Vangelo che esige una continua metamorfosi della mente e del cuore.

Questo cambiamento voluto e guidato dallo Spirito è espressione e segno di vita.

Vangelo (Lc 17,5-10)

Il brano del Vangelo che ci viene proposto oggi non è fra i più facili. Sia la prima parte dove si parla della fede (vv.5-6) che la seconda, dove viene proposta una sconcertante parabola (vv.7-9) sono piuttosto enigmatiche e sollevano interrogativi. Lo stesso discorso vale per il versetto conclusivo (v.10) nel quale anche i discepoli più fedeli sono chiamati “servi inutili”.

Cominciamo dai prodigi che la fede, anche piccola come un granello di senapa, è in grado di produrre. Il detto del Signore è introdotto da una richiesta dei discepoli: “Aumenta la nostra fede”.

È possibile far crescere la fede? O si crede o non si crede, pensa qualcuno. Allora non ci può essere un più o un meno. Questo sarebbe vero se la fede si riducesse all’assenso dato a un pacchetto di verità.

In realtà credere non riguarda solo la mente: comporta una scelta concreta, implica la piena e incondizionata fiducia in Cristo e l’adesione convinta alla sua proposta di vita. Stando così le cose è facile rendersi conto che la fede può crescere o diminuire. Il cammino al seguito del Maestro a volte è più spedito, a volte meno, a volte ci si stanca, si rallenta e ci si ferma.

L’esperienza di una fede incerta e vacillante viene fatta ogni giorno: crediamo in Gesù, ma non ci fidiamo totalmente di lui, non abbiamo il coraggio di compiere certi passi, di slegarci da certe abitudini, di fare certe rinunce. Ecco la fede che deve rafforzarsi!

La richiesta degli apostoli rivela la convinzione cui essi sono giunti. Si sono resi conto che la maturazione spirituale non è frutto del loro sforzo e del loro impegno, ma è un dono di Dio, per questo chiedono a Gesù di renderli più decisi, più convinti, più generosi nella scelta di seguirlo.

Dal contesto si intuisce anche la ragione per cui gli rivolgono questa supplica.

Egli ha prospettato loro il cammino difficile che li attende: dovranno entrare per la porta stretta (Lc 13,24), essere disposti a “odiare” il padre e la madre (Lc 14,26), rinunciare a tutti i propri beni (Lc 14,33) e – come è scritto nei versetti che precedono immediatamente il nostro brano – dovranno essere capaci di perdonare senza limiti e senza condizioni (Lc 17,5-6). Davanti a simili richieste è comprensibile che si sentano mancare le forze.

La tentazione di rimettere in causa le proprie scelte, di tirarsi indietro è grande. Anche a loro, probabilmente, viene da dire, come molti hanno già fatto: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?” (Gv 6,60). Temono di non farcela. Ecco allora affiorare spontanea sulla loro bocca l’invocazione di aiuto: aumenta la nostra fede!.

Invece di esaudirli, Gesù comincia a descrivere le meraviglie che la fede produce.

Impiega un’immagine paradossale e molto strana per la nostra cultura: parla di un albero – non si sa bene se si tratta di un gelso o di un sicomoro – che può essere miracolosamente sradicato e piantato in mare.

Se Gesù si riferisce al sicomoro, allora l’immagine allude alle radici molto forti e profonde di questa pianta, radici che resistono anche per seicento anni e che sono molto difficili da estirpare dalla terra.

La fede – dice Gesù – è capace di realizzare anche l’impossibile: sradicare un sicomoro o far crescere un gelso nel mare.

Matteo e Marco non parlano di un albero, ma di una montagna che può essere spostata con la fede (Mt 17,29; Mc 11,23) e questa doveva essere un’immagine più familiare e proverbiale, che viene usata anche da Paolo (1 Cor 13,2). Il messaggio è comunque lo stesso e può essere riassunto con le parole pronunciate da Gesù in un altro contesto: “Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23).

Viene spontaneo un interrogativo: come mai nessuno ha mai compiuto simili miracoli? Non li hanno fatti né Gesù, né la Madonna, né Abramo, né i grandi santi. Non li hanno compiuti – e non è difficile capirlo – perché Gesù stava parlando in modo iperbolico.

I miracoli di cui parla sono quei cambiamenti inattesi che si realizzano in coloro che credono, sono quelle trasformazioni inspiegabili, assolutamente imprevedibili che si verificano nella società e nel mondo quando ci si fida realmente della parola del Vangelo e la si pone in pratica.

Alcuni esempi ci possono illuminare: di fronte agli odi, ai rancori, ai pregiudizi che hanno caratterizzato i rapporti fra i popoli, chi non ha pensato che si tratti di realtà ineluttabili? Chi non ha pensato che certi conflitti familiari siano insanabili? Chi, almeno una volta, non ha ritenuto che le radici dell’inimicizia siano tanto profonde da non poter essere strappate?

Per chi crede – dice Gesù – non esistono situazioni irrecuperabili. Chi confida nella sua parola sarà testimone di miracoli straordinari e inattesi, vedrà realizzarsi i cambiamenti prodigiosi annunciati dai profeti: il deserto fiorirà (Is 32,15) e la steppa sarà trasformata in un giardino dell’Eden (Is 51,3).

A questa affermazione fa seguito una parabola (vv.7-9) che ci lascia un po’ di amarezza e delusione.

Non è facile capire perché Gesù parli in questo modo.

Racconta di uno schiavo che, dopo una giornata di duro lavoro, torna a casa sfinito e col volto bruciato dal sole. Il padrone, invece di complimentarsi con lui per il servizio reso e di invitarlo a sedersi, a mangiare un boccone, lo apostrofa con durezza: “Prima servi me, dopo, quando io sarò sazio, cenerai anche tu”.

Siccome il padrone rappresenta Dio ed i servi siamo noi, abbiamo di che preoccuparci: al termine della nostra vita verremo davvero accolti in questo modo?

La parabola sorprende anche perché, qualche domenica fa, abbiamo sentito Gesù parlare in modo ben diverso: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37). Una scena commovente!

Il paragone usato nel brano di oggi non corrisponde alla nostra attuale sensibilità, anzi ci irrita. Dobbiamo collocarlo nel contesto culturale del tempo, quando lo schiavo era considerato proprietà del padrone e non poteva avanzare alcuna pretesa.

Gesù non discute questa situazione, la prende come un dato di fatto.

Un giorno enuncerà i principi innovatori su cui sarà basata la società nuova da lui proposta.

Ricordiamo il richiamo ai discepoli durante l’ultima cena: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse esigono di essere chiamati benefattori. Tra voi non sia così; ma il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,24-27).

Ora egli non intende affrontare il problema della schiavitù, si serve solo di un esempio per trasmettere il suo messaggio teologico. Vuole correggere il modo fuorviante in cui i farisei (di allora e di oggi) intendevano il rapporto con Dio.

Le guide spirituali di quel tempo predicavano la religione dei meriti. Dicevano: alla fine della vita, Dio retribuirà in base alle prestazioni di ognuno. Da qui la necessità di compiere il maggior numero possibile di opere buone: preghiere, digiuni, elemosine, pratiche religiose, sacrifici, osservanza scrupolosa dei comandamenti e dei precetti. Tutto per avere diritto ad una ricompensa maggiore.

Questo modo di intendere il rapporto con il Signore corrisponde perfettamente alla nostra logica.

Ci sembra giusto immaginare un Dio così: non ci rendiamo conto che stiamo ragionando esattamente come i farisei.

L’uomo – che è polvere e cenere – non può avanzare alcun diritto davanti a Dio, dal quale riceve tutto gratuitamente.

Questa religione dei meriti è deleteria per chi la pratica, instaura rapporti scorretti, improntati ad un sottile egoismo fra gli uomini e deforma il rapporto con Dio.

Non ama realmente colui che compie il bene con l’obiettivo – nemmeno tanto nascosto – di accumulare meriti davanti a Dio. Pone ancora se stesso al centro dei propri interessi, aiuta il fratello per migliorare la propria vita spirituale.

Gesù vuole che il discepolo metta da parte qualunque egoismo, anche spirituale.

Entra nel regno di Dio chi ama in modo incondizionato e gratuito come il Padre che sta nei cieli.

Il guaio maggiore provocato dalla religione dei meriti è un altro: riduce Dio alla stregua del ragioniere incaricato di mantenere in ordine i libri contabili e di segnare accuratamente debiti e crediti di ognuno.

La parabola vuole distruggere questa immagine di Dio.

Non ci piace, ci irrita perfino, perché l’idea che, facendo il bene, acquistiamo meriti davanti a Dio è troppo radicata in noi. È profonda come la radice di un sicomoro!.

Il detto conclusivo – già molto duro – è reso anche più ostico dal testo italiano che, in modo inesatto, parla di servi inutili. Nessun servo solerte e laborioso può essere definito inutile. Meglio tradurre: Siamo semplici servi; non abbiamo fatto altro che il nostro dovere (v.10).

Gesù non intende sottovalutare le opere buone, non disprezza il lavoro dell’uomo né assume un atteggiamento di supponenza nei confronti di chi si impegna a compiere il bene. Cerca piuttosto di liberare i discepoli da una forma di orgoglio pericolosa per loro e per gli altri: l’autocompiacimento per la propria giustizia, l’ostentazione delle propria santità, l’esibizione della propria condotta impeccabile. Vuole purificare i loro cuori dagli impulsi all’emulazione e alla rivalità spirituale.

Non bisogna competere per accaparrarsi le predilezioni e l’amore di Dio: di questo amore ce n’è in abbondanza per tutti.

Gesù vuole far capire che il comportamento del fariseo che fa sfoggio dei suoi meriti è insensato perché il bene non è opera dell’uomo, ma sempre e tutto dono gratuito di Dio. “Che cosa possiedi – dice Paolo – che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7).

AUTORE: p. Fernando Armellini

FONTE: per gentile concessione di Settimana News