p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 2 Maggio 2021

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Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 2 Maggio 2021.
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Chi appartiene a Cristo?

“Fuori della chiesa non c’è salvezza”. È celebre questa affermazione, pronunciata nel III secolo da Cipriano, vescovo di Cartagine, e non sempre interpretata nel modo corretto.

Molti cristiani in passato hanno commesso l’errore di identificare il regno di Dio con l’istituzione ecclesiale cui appartenevano, hanno ostentato arroganti sicurezze, coltivato pregiudizi nei confronti delle altre religioni e definito gli altri impuri e lontani. Nei casi più aberranti sono anche ricorsi alla forza per costringere alla conversione e al battesimo.

Chiesa e regno di Dio non combaciano. Ci sono zone d’ombra nella chiesa che si autoescludono dal regno di Dio, perché in esse alligna il peccato e ci sono margini enormi al di là dei confini della chiesa che rientrano nel regno di Dio, perché vi agisce lo Spirito.

“Praticante” non equivale a “inserito nel corpo di Cristo”. “Credente” non è colui che si limita alle pratiche religiose: messa, sacramenti, preghiere, devozioni, ma chi, a imitazione di Cristo, pratica la giustizia, la fraternità, la condivisione dei beni, l’ospitalità, la fedeltà, la sincerità, il rifiuto della violenza, il perdono dei nemici, l’impegno per la pace.

La linea di demarcazione fra chi appartiene e chi non appartiene a Cristo non passa nel campo del sacro, ma in quello dell’amore all’uomo e “chiunque pratica la giustizia, a qualunque popolo (e religione) appartenga, è accetto a Dio” (At 10,35).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Ovunque germogliano l’amore, la gioia, la pace, il perdono, lì è presente lo Spirito del Risorto”.

Prima Lettura (At 9,26-31)

In quei giorni Paolo, 26 venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo.
27 Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. 28 Così egli potè stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore 29 e parlava e discuteva con gli ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. 30 Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
31 La chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo.

Alcuni anni dopo la sua conversione, Paolo decise di fare un viaggio a Gerusalemme. Voleva incontrare Pietro e conoscere quella comunità che prima aveva ferocemente perseguitato. Tutti erano al corrente del suo radicale cambiamento di vita, tuttavia, nei suoi confronti, c’era ancora molta diffidenza e, prima di accoglierlo, si voleva verificare la solidità della sua decisione (v. 26). Intervenne Barnaba, un discepolo eminente e stimato da tutti per la sua generosità (At 4,36-37) e dedizione alla causa del vangelo. Egli conosceva bene Paolo, era al corrente della sua preparazione biblica e aveva intuito che avrebbe potuto divenire un grande apostolo. Lo prese con sé e lo presentò alla comunità.

Dopo questo primo, difficile impatto con i nuovi fratelli di fede di Gerusalemme, per Paolo si aprì subito un aspro conflitto con gli esponenti più fanatici dell’istituzione religiosa giudaica i quali cercarono addirittura di ucciderlo. Lo consideravano un eretico, un traditore della fede e delle tradizioni dei padri (vv. 28-30). Era solo l’inizio di una lunga serie di persecuzioni che l’Apostolo avrebbe sopportato per Cristo.

Il messaggio contenuto in questo episodio va ben oltre l’informazione biografica.

Quando, per la prima volta dopo la conversione, Paolo si recò a Gerusalemme, aveva già svolto – secondo quanto egli stesso riferisce nella lettera ai galati – un ministero apostolico nel regno dei nabatei (l’attuale Giordania) e a Damasco, dove l’etnarca del re Areta aveva cercato di catturarlo. Non aveva annunciato Cristo ai pagani di propria iniziativa: la missione gli era stata affidata, lungo la via di Damasco, dallo stesso Gesù (Gal 1,11-16). Eppure, malgrado avesse ricevuto una rivelazione davvero speciale, non si sentì autorizzato ad agire indipendentemente dai fratelli di fede, volle subito instaurare rapporti stretti con la comunità madre di Gerusalemme, presieduta da Pietro.

Avrebbe avuto mille ragioni per seguire la propria strada. Prima degli altri aveva intuito le scelte pastorali giuste, si era reso conto che la comunità cristiana rischiava di chiudersi in un ghetto, che avrebbe dovuto sciogliere gli ormeggi che la tenevano legata all’istituzione giudaica e lanciarsi verso il mondo. Ma erano una minoranza coloro che, nella chiesa, la pensavano come lui e lo stesso Pietro era esitante.

Che fare? Andarsene per proprio conto, senza curarsi degli altri?

Attraverso il comportamento di Paolo, l’autore degli Atti vuole lanciare un messaggio a coloro che, anche oggi, si dedicano con passione alla causa del vangelo, ma si sentono poco capiti dalla loro comunità; devono affrontare incomprensioni e divergenze e forse sono tentati di abbandonare tutto o di isolarsi. Paolo ha cercato, fin dall’inizio, l’unità con i fratelli di fede e, anche in seguito, nessun contrasto riuscì mai ad allontanarlo dalla comunione ecclesiale.

Seconda Lettura (1 Gv 3,18-24)

18 Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. 19 Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore 20 qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
21 Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio; 22 e qualunque cosa chiediamo la riceviamo da lui perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che è gradito a lui.
23 Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. 24 Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Anche se ci sforziamo di vivere in modo coerente con la nostra fede, ci rendiamo conto di rimanere peccatori e Giovanni ce lo ricorda all’inizio della sua lettera: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8). Come sapere allora se siamo uniti a Cristo oppure no, se siamo tralci in cui è presente la sua linfa, cioè il suo Spirito o se siamo rami secchi e improduttivi?

Lo stupore di Gesù di fronte alla fede della donna cananea (Mt 15,28) e del centurione di Cafarnao, la sua esclamazione: “Presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” (Mt 8,10), la constatazione che esistono tanti pagani buoni e generosi, come Cornelio che “faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio” (At 10,2) obbligano a chiedersi se chi, pur non essendo battezzato, conduce una vita integra non sia in qualche modo già unito a Cristo.

Nel brano di oggi Giovanni risponde a questi interrogativi e suggerisce il criterio che permette di stabilire chi appartiene realmente a Cristo. Ciò che discrimina non è il fatto di avere il proprio nome scritto nei registri della parrocchia, ma di accogliere lo Spirito che è libero come il vento, che non si lascia monopolizzare da alcuna istituzione, nemmeno da quella ecclesiale e agisce in chiunque lo accolga.

C’è un segno inequivocabile della sua presenza: le opere di amore.

Nel versetto che precede immediatamente il nostro testo, Giovanni introduce così il suo pensiero: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (v. 17) e conclude: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (v. 18). Il segno della presenza dello Spirito di Cristo non sono le professioni di fede proclamate a parole, ma le opere concrete in favore dell’uomo.

Colui che non possiede lo Spirito di Dio non può produrre opere di amore, se le compie è segno che è unito a Cristo e a Dio.

Anche coloro che non hanno conosciuto Cristo, se amano, possono essere certi di avere in sé la vita divina, perché “l’amore è da Dio e chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,7-8).

La lettura continua con una delle affermazioni più belle di tutta la Bibbia. Se facciamo un bilancio della nostra vita, siamo costretti ad ammettere di avere commesso errori, ci rendiamo conto di essere stati condizionati da difetti e da abitudini che non siamo stati capaci di correggere; per questo non riusciamo a liberarci dal pensiero che anche Dio ci rifiuti e ci condanni, come fa il nostro cuore.

La risposta di Giovanni è consolante: se ci impegniamo nell’amore concreto al fratello, non dobbiamo più aver paura delle nostre miserie, delle nostre fragilità e nemmeno del giudizio severo pronunciato dal nostro cuore; di qualunque cosa esso ci rimproveri, potremo rassicurarlo, perché “Dio è più grande del nostro cuore” (v. 20).

La più diabolica delle tentazioni è quella che ci fa immaginare Dio più piccolo del nostro cuore. Una madre è disposta a perdonare qualunque errore al figlio, anche se egli non è pentito del male commesso. Eppure questa stessa madre può essere convinta che Dio, essendo giusto, un giorno manderà suo figlio all’inferno. Chi non rifiuta questo pensiero ritiene che Dio sia più piccolo del suo cuore.

Vangelo (Gv 15,1-8)

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: 1 “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato.
4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

La terra promessa è ricordata, nella Bibbia, non solo come quella dove “scorrono latte e miele”, ma anche quella dove crescono vigne e ulivi (Gs 24,13). Ogni famiglia ebrea coltivava, accanto alla casa, la vite che forniva ombra durante la lunga estate (1 Re 5,5) e preziosi grappoli che in parte venivano essiccati per fare uva passa e in parte erano pigiati per ottenere vino buono e forte.

Associate spontaneamente alla gioia e alla festa, la vite e la vigna sono usate spesso, nella Bibbia, in modo simbolico, sono espressione delle benedizioni di Dio. Anche Gesù, cresciuto nel mondo agricolo della Palestina, si è servito di queste immagini nelle sue parabole e allegorie.

“Io sono la vera vite” (v. 1) è l’affermazione solenne con cui Gesù esordisce nel vangelo di oggi.

Per cogliere il significato e anche la componente provocatoria di questa frase è necessario tenere presente che la vigna del Signore, cantata dai profeti, era Israele, vite che aveva prodotto frutti copiosi di fedeltà, quando era “come uva nel deserto” (Os 9,10) e quando rispondeva alle premure di Dio: “La vigna è deliziosa, cantate di lei! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, io ne ho cura notte e giorno. Vi fossero rovi e pruni, io muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme” (Is 27,2-5).

Simbolo di Israele-vigna del Signore era, nel tempio di Gerusalemme, la vite d’oro che ricopriva le pareti del vestibolo e che andava sempre più estendendosi, grazie ai tralci, ai grappoli e ai pampini d’oro offerti dai pellegrini.

La vigna-Israele era stata piantata sul terreno fertile di una collina, ma deluse il suo Dio e cominciò a produrre uva acida (Is 5,1-4). Il Signore se ne dolse: “Io ti avevo piantato come vigna eccellente, come mai ti sei trasformata in vigna bastarda?” (Ger 2,21) e prese una decisione dolorosa, ma necessaria: “Toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia” (Is 5,5-7).

Tuttavia le opere che Dio inizia non si concludono mai con un fallimento. Israele si era comportato da vite infedele, ma cosa fece il vignaiolo che “si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, si attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,7)?

Non la ripudiò, nonostante le infedeltà, perché “i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Dal ceppo antico e sterile di questa vite fece germogliare, nel giorno di Pasqua, un virgulto nuovo, genuino: Cristo, la vite vera.

Gesù è vite e i discepoli, che ne costituiscono i tralci, sono parte di lui ed è da loro che il Signore si attende frutti deliziosi: la giustizia, la rettitudine, l’amore; per questo si comporta da giardiniere, da vignaiolo: li pota e li taglia (vv. 2-3).

Le due azioni erano compiute dai contadini in stagioni diverse dell’anno. La prima aveva luogo durante l’inverno e consisteva nell’asportazione dei tralci inutili, la seconda, fatta in agosto, aveva lo scopo di rimuovere i germogli più deboli per favorire i migliori.

L’interpretazione più immediata di queste immagini può indurre alla tristezza, paiono infatti una severa minaccia nei confronti dei tralci morti e improduttivi, che potrebbero indicare i cristiani divenuti tiepidi o incoerenti con la loro fede. Il loro destino sarebbe il fuoco: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano” (v. 6).

Si tratta di un’interpretazione fuorviante e in contraddizione con la predilezione di Dio per i più deboli.

Potare e tagliare non sono immagini delle ritorsioni, ma delle premure di Dio nei confronti di ogni uomo e di ogni discepolo. Il fatto di essere inseriti in Cristo – o per azione diretta dello Spirito, come avviene per chi non ha ricevuto il battesimo, o per la rinascita “da acqua e da Spirito”, com’è il caso dei cristiani – non mette nella condizione di produrre automaticamente frutti. I rami secchi non rappresentano gli individui che si comportano in modo poco edificante, ma le miserie, le infedeltà al vangelo, le debolezze, i piccoli e grandi peccati presenti anche nel migliore dei discepoli. Nessuno ne è immune, tutti hanno un costante bisogno di purificazione.

La separazione manichea fra buoni e cattivi, fra chi si sente a posto perché appartiene all’istituzione chiesa e chi ne è fuori, è una forma di arroganza spirituale e di ipocrisia. Chi vede rami secchi solo negli altri, chi pensa che solo gli altri abbiano urgente bisogno di potatura, chi pretende addirittura di escluderli dalla comunità o li dichiara reietti da Dio, è solo una persona supponente, scorge la pagliuzza nell’occhio del fratello e non si rende conto della trave che c’è nel suo (Mt 7,4).

È segno di sfiducia nell’opera purificatrice di Dio anche lo scoraggiamento di fronte alle miserie umane presenti nella chiesa. Le delusioni causate dai peccati di chi si professa cristiano possono portare qualcuno alla decisione sofferta di abbandonare la comunità. Scelta comprensibile e meritevole di rispetto, ma pur sempre sbagliata. Chi non capisce i fratelli che sbagliano, chi li rifiuta si allontana anche dalla vite, Gesù, che accarezzava i lebbrosi (Mc 1,41) ed era “l’amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11,19).

“Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato” (v. 3). Non è una dichiarazione di innocenza dei discepoli, ma l’indicazione dello strumento di cui il Padre si serve per potare.

Durante l’ultima cena, Gesù disse ai discepoli: “Voi siete mondi, ma non tutti” (Gv 13,11). Si riferiva a Giuda, il discepolo che rappresenta chi, pur avendo dato la propria adesione a Cristo, coltiva progetti opposti ai suoi: il potere invece del servizio, la ricerca del primo posto invece dell’ultimo. Giuda è l’immagine di chi non permette al Padre di intervenire nella sua vita, di chi non si lascia “mondare” la mente e il cuore dalla parola di Dio e, per questo, corre il rischio di perire.

Il confronto con la persona di Gesù e con la sua parola costituisce una continua, necessaria potatura. Questa parola “è più tagliente di una spada a doppio taglio, essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Non c’è angolo oscuro o segreto del cuore che sfugga alla sua luce, non c’è ombra di morte che essa non dissolva. Indica i rami che vanno eliminati e le foglie inutili che tolgono spazio e raggi di sole ai tralci produttivi, mostra quanto siano effimere le manifestazioni esteriori di religiosità cui non corrisponde un’autentica adesione a Cristo.

Pur comportando un aspetto doloroso, essendo svolta dal Padre, quest’opera purificatrice è sempre motivo gioia; le mani di Dio feriscono solo per risanare (Gb 5,17). “È per la vostra correzione – spiega l’autore della Lettera agli ebrei – che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?” (Eb 12,7).

Le critiche, a volte dure e graffianti, che, da più parti, oggi sono rivolte alla chiesa, non possono essere liquidate, troppo facilmente, come espressioni astiose di gente prevenuta che non ama Cristo e che non merita alcuna considerazione. Potrebbero invece costituire richiami a una vita più coerente con la fede che professiamo, potrebbero essere una salutare potatura, anche se dolorosa.

A vantaggio di chi vengono prodotti i frutti? A gloria del Padre – risponde l’ultimo versetto del brano (v. 8).

 Dio non si aspetta applausi e lodi. La sua gloria consiste nella manifestazione e nell’effusione del suo amore sull’umanità. In vista di quest’opera i discepoli sono associati a Cristo, in perfetta unità, perché insieme a lui costituiscono l’unica vite.

La vite non produce uva per se stessa, ma per gli altri. Il tralcio trova la propria realizzazione quando si sente vivo, quando vede spuntare i germogli, i fiori, le foglie e i dolci grappoli.

Il cristiano non produce opere d’amore per se stesso, per autocompiacersi della propria perfezione morale e nemmeno per ottenere un premio da Dio. Egli è come il Padre che sta nei cieli: ama senza aspettarsi nulla in cambio. La sua ricompensa è la gioia di vedere qualcuno felice, è verificare che l’amore di Dio si è manifestato attraverso lui. Nulla di più, ma anche nulla di meno: questa è infatti la gioia stessa di Dio e, quando avrà raggiunto in tutti la pienezza, sarà il regno di Dio.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News