p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 19 Luglio 2020

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 19 luglio 2020.
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L’opera creatrice è iniziata con la separazione della luce dalle tenebre (Gn 1,4); il firmamento fu posto per separare le acque che sono sopra il cielo da quelle che si trovano sulla terra (Gn 1,6-7); Dio disse: “Vi siano lampade nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte” (Gn 1,14). Al termine di queste separazioni, l’autore sacro commenta: “E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31).

Da quel giorno, l’uomo – forse per l’inconscia paura che gli opposti potessero di nuovo fondersi e riportare il caos, il disordine che rendeva impossibile la vita – è istintivamente indotto ad erigere steccati e a stabilire una separazione fra i buoni e i malvagi, fra il puro e l’impuro, fra i santi e gli empi, fra gli amici di Dio e i suoi nemici. Alcuni testi della Bibbia, interpretati superficialmente, sembrano approvare simili discriminazioni: “Sarete santi per me, poiché io, il Signore, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei” (Lv 20,26; 20,26).

Nel mondo uscito buono dalle mani di Dio, la presenza del male rimane un enigma, un elemento di disturbo che l’uomo non sopporta e, impaziente come i servi della parabola, si chiede: “Da dove viene la zizzania?”. In lui subentra allora la frenesia di risolvere immediatamente le tensioni che prova e finisce per ricorrere a rimedi peggiori del male: diventa spietato e intollerante con se stesso e con gli altri, castiga in modo crudele, scatena guerre sante e si lascia prendere dall’ira che “mai porta a compimento la giustizia di Dio” (Gc 1,20).

In tal modo commette due errori: non accetta serenamente la realtà del mondo in cui il bene e il male sono destinati a convivere e confonde la stagione della crescita con quella della mietitura.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“La presenza del male nel mondo non mette in pericolo la riuscita del regno di Dio”.

Prima Lettura (Sap 12,13.16-19)

13 Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
perché tu debba difenderti
dall’accusa di giudice ingiusto.
16 La tua forza infatti è principio di giustizia;
il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti.
17 Mostri la forza se non si crede nella tua onnipotenza
e reprimi l’insolenza in coloro che la conoscono.
18 Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza;
ci governi con molta indulgenza,
perché il potere lo eserciti quando vuoi.
19 Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo
che il giusto deve amare gli uomini;
inoltre hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza
perché tu concedi dopo i peccati
la possibilità di pentirsi.

Il libro della Sapienza è stato l’ultimo dell’AT ad essere scritto. Il suo autore – un giudeo di Alessandria d’Egitto – era probabilmente ancora vivo quando Gesù è nato.

Da secoli la maggioranza degli israeliti viveva dispersa per il mondo. In ogni città dell’impero romano costituivano una comunità a parte: avevano le loro sinagoghe, i loro rabbini, i loro tribunali, le loro feste, le loro tradizioni. Non contraevano matrimonio con i pagani e prendevano tutte le precauzioni per non lasciarsi corrompere dai costumi degli altri, per non lasciarsi influenzare dalla loro morale e dalle loro pratiche religiose.

Alcuni di questi israeliti della cosiddetta diaspora avevano trovato un’ottima sistemazione all’estero, esercitavano professioni redditizie, ma i più vivevano in ristrettezze ed erano anche oggetto di discriminazioni. Costoro si chiedevano: come mai noi, pur essendo fedeli alla legge di Dio, siamo oppressi e umiliati, mentre gli idolatri prosperano? Perché Dio tollera che subiamo insolenze e ingiustizie? I nostri padri ci hanno raccontato che, in passato, il Signore compiva segni e prodigi in favore del suo popolo, come mai ora non interviene più, è forse diminuita la sua forza?

Nel brano di oggi l’autore risponde a queste domande. La forza del Signore – assicura – è sempre la stessa, infinita, ma egli non la usa per punire, la impiega solo per il bene dell’uomo. Questa è la sua giustizia: usare indulgenza nei confronti di tutti. Il suo dominio è universale, si estende su giusti ed empi: non può voler bene solo ad alcuni (v. 16).

Gli uomini impiegano la loro forza per incutere timore e rispetto, per soggiogare i più deboli e costringerli a rimanere sottomessi. Dio invece, pur essendo il padrone della forza, non la usa per imporre la sua sovranità; non ricorre ai castighi, alle ritorsioni, alle vendette, ma, con tutti, anche con i malvagi, si mostra mite e indulgente (vv. 17-18).

Commoventi le due ragioni che, nell’ultimo versetto (v. 19), spiegano il sorprendente comportamento di Dio: egli è paziente, anzitutto, perché vuole insegnare al suo popolo che il giusto deve amare gli uomini. Ci sono, sì, azioni ignobili, opere infami, ma nessun uomo è spregevole, tutti meritano amore. La seconda ragione: Dio non interviene con ritorsioni e castighi perché non vuole la morte del malvagio, ma “che desista dalla sua condotta e viva” (Ez 18,23); per questo gli offre sempre la possibilità di pentirsi (v. l9). Chi si attende un suo intervento punitivo sta semplicemente proiettando in Dio i propri istinti vendicativi.

Seconda Lettura (Rm 8,26-27)

26 Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; 27 e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.

Come si fa a pregare? Se bastasse ripetere formule sarebbe semplice. Ma Gesù ha detto che la preghiera dei suoi discepoli non è di questo tipo: “Quando pregate non sprecate le parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7)

Nella lettura di oggi Paolo riconosce candidamente: noi non sappiamo pregare, non abbiamo idea di che cosa si debba chiedere a Dio e le nostre invocazioni sono spesso solo tentativi di farlo aderire ai nostri progetti.

Lo Spirito viene in soccorso della nostra debolezza e ci suggerisce le parole che dobbiamo rivolgere al Padre (v. 26). Pregarlo è aprire la mente e il cuore alla sua luce e disporsi ad accogliere la sua volontà, in ogni istante della vita. Chi ci offre la luce di Dio e ci dona la forza di seguirla è lo Spirito, “colui che scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio” (1 Cor 2,10) e ci fa partecipi dei suoi misteri. I pensieri del Signore sono però incomprensibili per la sapienza di questo mondo (1 Cor 2,3-7), per questo Paolo li definisce “gemiti ineffabili”.

La preghiera che viene dallo Spirito è sempre esaudita, perché è conforme ai desideri di Dio: non cerca di piegare la sua volontà alla nostra, ma ottiene la nostra conversione alla sua (v. 27).

Vangelo (Mt 13,24-43)

24 Un’altra parabola espose loro così: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25 Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26 Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. 27 Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? 28 Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? 29 No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30 Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”.
31 Un’altra parabola espose loro: “Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. 32 Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”.
33 Un’altra parabola disse loro: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti”.
34 Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, 35 perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”.
36 Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. 37 Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38 Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, 39 e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. 40 Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41 Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità 42 e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. 43 Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!

Con altre tre parabole Gesù svela progressivamente il mistero del regno dei cieli. La prima – quella del grano e della zizzania (vv. 24-30) – riceve, come è accaduto a quella del seminatore della scorsa domenica, una spiegazione (vv. 36-43); si tratta di un’omelia di un predicatore del tempo di Matteo, che ha attualizzato il racconto e lo ha applicato ai bisogni delle sue comunità. Poi vengono raccontate altre due parabole – quelle del granello di senapa e del lievito (vv. 31-33) – introdotte per porre in risalto la forza irresistibile del bene. I vv. 34-35 riprendono ciò che è stato detto nei vv. 10-17 e chiariscono la ragione per cui Gesù parla in parabole. Esaminiamo le parti principali del brano.

Da dove viene la zizzania? (vv. 24-30).

Già l’esistenza del male – cui l’uomo non ha mai saputo dare una risposta soddisfacente – costituisce un angosciante problema. Oltre a questo, i cristiani delle comunità di Matteo ne dovevano affrontare un secondo, non meno serio: erano passati cinquant’anni dalla morte e risurrezione di Gesù e, guardandosi attorno, verificavano che nel mondo era presente, sì, tanto bene, ma continuava ancora a crescere, rigoglioso, anche il male. Come mai il regno dei cieli, inaugurato da Gesù, non aveva avuto un successo totale e immediato?

L’interrogativo era imbarazzante. Qualcuno lo formulava in termini ironici e provocatori: “Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2 Pt 3,4).

L’enigma dell’esistenza del male esige una spiegazione e l’evangelista la dà, con una parabola di Gesù.

Il primo personaggio che viene messo in scena è il padrone. Rappresenta Dio. È lui che semina o è lui, in ogni caso, il responsabile della qualità del seme, che viene definito “buono” (v. 24). Questo aggettivo non è banale, richiama in modo esplicito il ritornello che, per dieci volte, è ripetuto nel primo capitolo della Genesi: “E Dio vide che era buono”. Tutto era buono ciò che Dio aveva fatto: non nel senso che non accadevano cataclismi e catastrofi naturali, che non esistevano dolore, malattia e morte, ma tutto era buono perché perfettamente adatto a realizzare il progetto del Signore.

Il creato è buono, come è buono il seme della parola annunciata da Gesù.

Il secondo personaggio è il nemico: rappresenta la logica di questo mondo, la mentalità antievangelica. Giunge di notte e, mentre tutti dormono, semina la zizzania, una graminacea molto simile al grano: cresce fino all’altezza di 60 centimetri e produce una spiga contenente chicchi nerastri; le sue radici si intrecciano con quelle del frumento e sono impossibili da sradicare senza strappare anche quello.

È quando le menti sono intorpidite dal sonno, è nei momenti in cui la vigilanza si allenta, è nei tempi in cui ci si abbandona alle dissipazioni e alle frivolezze che il nemico trova il modo di introdursi nel campo per seminare il male. Basta una disattenzione e si finisce per adeguarsi alla morale corrente, si assimilano i princìpi di questo mondo. Non è facile, in un primo momento, rendersi conto dell’accaduto, il male infatti si maschera spesso da “angelo di luce” (2 Cor 11,14). È in seguito, quando si osservano i risultati, che ci si rende conto del germe di morte che è penetrato nella mente e nel cuore. Ecco la ragione per cui Paolo raccomanda: “ È ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino” (Rm 13,11-12).

Il terzo personaggio – che ci è simpatico, perché ci rappresenta – sono i servi. La loro reazione – un misto di stupore e di smarrimento di fronte alla constatazione della presenza del loglio – è quella che noi sperimentiamo quando ci avvediamo dell’esistenza del male nel mondo, nella comunità cristiana, in ogni uomo. Il dialogo concitato con il padrone è commovente: mostra il loro interesse per il campo, il loro impegno per la produzione. Non sembrano estranei, ma membri della famiglia.

È a questo punto che si inserisce il messaggio centrale della parabola: la loro passione per la causa del bene li coinvolge al punto da indurli a proporre un’azione sconsiderata. Sono colti dall’impazienza, dall’ansia di sbarazzarsi subito della zizzania; non hanno esitazioni, vogliono intervenire in modo energico e immediato.

Il padrone non perde il controllo, mantiene la calma. Non si meraviglia dell’accaduto, non si scompone, non condivide la loro inquietudine. Nella sua risposta (che occupa più di un terzo del racconto) è presentata la prospettiva di Dio: in questo mondo, il bene e il male non possono essere separati, sono destinati a crescere insieme e così fino alla fine.

Come mai non si possono accelerare i tempi? Se Dio è onnipotente perché non elimina subito ogni traccia di male?

Perché non è onnipotente, come forse noi lo immaginiamo. La Bibbia non gli attribuisce mai questo titolo; lo chiama potente (Lc 1,49) o pantokrátor (Ap 1,8) che non significa “colui che può fare ciò che vuole”, ma “colui al quale nulla sfugge di mano”. L’uomo è libero e Dio ha voluto iniziare con lui “una storia d’amore” dalla quale potrebbe anche uscire sconfitto. Il suo progetto contempla la presenza del male, che va accettata serenamente, come una componente della vita. Credere che egli è pantokrátor vuol dire alimentare la convinzione che egli condurrà abilmente questa “storia d’amore” con ogni uomo e che l’ultima parola, quella decisiva, vincente, sarà comunque la sua.

La presenza della zizzania sia in noi che negli altri infastidisce enormemente. Ci costa ammettere che “non c’è sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non pecchi” (Qo 7,20). Vorremmo cullarci nell’illusione di essere perfetti, desidereremmo avere una conferma dell’immagine elevata che ci siamo fatti di noi stessi. Il male non va giustificato, certo, ma Gesù esorta a considerarlo con gli occhi sereni e pazienti di Dio.

La sorprendente crescita del regno dei cieli (vv. 31-35).

Alla parabola del grano e della zizzania ne seguono altre due, brevi, che sono dette “gemelle” perché contengono il medesimo messaggio: la sproporzione fra il piccolo inizio e l’inatteso, stupefacente risultato finale. Un granello di senapa, quasi invisibile, dà origine ad un arbusto capace di raggiungere i quattro metri di altezza; pochi grammi di lievito fanno fermentare cinquanta chili di farina. Il contrasto è enorme!

Non è l’invito a godere del prestigio presente e a pregustare i trionfi futuri della chiesa che, iniziata con un gruppo poco qualificato di pescatori e di persone impure e peccatrici, è divenuta una struttura rispettata, temuta, apprezzata, capace di farsi notare e di imporsi. Non è neppure un annuncio della progressiva e inarrestabile cristianizzazione di tutto il mondo.

Come la parabola precedente che esortava alla pazienza e alla fiducia, queste due sono un invito all’ottimismo derivante dalla certezza che nello Spirito e nella parola di Cristo – benché insignificanti agli occhi del mondo – è presente la forza irresistibile di Dio.

L’evangelista conclude le tre parabole con una riflessione sull’obiettivo che, con esse, Gesù ha voluto raggiungere: svelare il progetto che, fin dal momento della creazione, Dio ha sul mondo (vv. 34-35).

L’accettazione serena del male non significa disimpegno (vv. 36-43).

La scena cambia. Gesù non è più sulla barca, ma in casa e non si rivolge alla folla, ma al gruppo ristretto dei discepoli. È il modo con cui l’evangelista introduce l’applicazione della parabola.

Leggendo questi versetti non si può non notare che la situazione cui si fa riferimento è completamente mutata: i personaggi non sono più gli stessi; la parabola diviene allegoria; il seme non è la logica del regno e la zizzania l’opposto, ma sembrano essere gli individui buoni e cattivi; il campo non è il mondo, ma il regno del figlio dell’uomo; il messaggio, soprattutto, non è lo stesso: prima il padrone invitava ad accettare serenamente l’esistenza del male accanto al bene e rimproverava l’intolleranza dei servi, ora anch’egli sembra lasciarsi prendere dalla frenesia di “mettere mano al fuoco” (v. 42).

Si tratta – come abbiamo rilevato – di una catechesi rivolta alle comunità di Matteo alla fine del I secolo. Probabilmente, dopo i primi decenni di grande fervore, i cristiani si erano un po’ rilassati e non prendevano più sul serio gli impegni del loro battesimo. Che fare? L’evangelista ha sentito il bisogno di scuoterli, di richiamarli alla serietà della vita e lo ha fatto servendosi del linguaggio dei predicatori del suo tempo. Era un giudeo, parlava a giudei e, per farsi capire, non poteva che ricorrere alle immagini comprensibili alla sua gente: il fuoco, le fornaci ardenti, il pianto, lo stridore di denti, la mietitura, gli angeli, i diavoli… Si tratta di metafore impressionanti, impiegate comunemente dai rabbini e che non possono essere ripetute oggi senza aggiungervi opportuni chiarimenti.

Non è corretto ricavare da esse conclusioni riguardo alla fine del mondo e al giudizio di Dio, perché Matteo non stava dando informazioni: non intendeva descrivere ciò che accadrà in futuro ai peccatori, ma stava rivolgendo un pressante, accorato richiamo ai suoi cristiani.

Una cosa è certa: chi fa il male rovina la propria vita. Quanto al futuro, più che assolutizzare le allegorie (in cui chiaramente la fervida fantasia orientale ha preso il sopravvento) è meglio soffermarsi su ciò che la Scrittura dice in modo esplicito e cioè che Dio è padre, “vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1 Tm 2,4) e “non ha inviato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).

E il fuoco? Dio conosce un unico fuoco: il suo Spirito, sceso sui discepoli nella Pentecoste (At 2, 3), consegnato dal Risorto nel giorno di Pasqua come forza distruttrice del peccato (Gv 20,22-23). È il fuoco cui alludeva Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). È la fiamma inarrestabile che brucerà – questa è la bella notizia! – ogni traccia di zizzania nel cuore di ogni uomo, lasciandovi solo il buon grano, l’unico che sarà ammesso nel mondo futuro.

Al momento della mietitura verranno raccolti e gettati nella fornace ardente “tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità”. Non è una minaccia di castigo, ma un lieto annuncio: il fuoco di Dio, il suo Spirito un giorno riuscirà a far scomparire ogni forma di male. Nel regno dei cieli, giunto al suo compimento, non ci sarà più alcuno che commetterà iniquità.


AUTORE: p. Fernando Armellini
FONTE: Settimana News
SITO WEB: http://www.settimananews.it/ascolto-annuncio/xv-annum-fra-cielo-terra-la-parola-2/

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