Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 11 Luglio 2021.
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Per essere liberi e credibili
Fissando lo sguardo sul paralitico che chiedeva l’elemosina presso la porta del tempio detta “Bella”, Pietro disse: “Guarda verso di noi”. Egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro riprese: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3,1-10).
Lo storpio si aspettava di tutto fuorché questo. La sua fortuna fu di aver incontrato due discepoli che, fedeli alle disposizioni del Maestro, non portavano nulla con sé. Avessero avuto denaro, gli avrebbero fatto l’elemosina, poi si sarebbero allontanati, lasciandolo nella condizione di prima. Il prodigio avvenne perché Pietro e Giovanni erano coscienti di essere depositari di un potere divino, di una parola capace di rimettere in piedi chiunque giaccia per terra e, incapace di gestire la propria vita, dipenda dalla compassione degli altri.
È lodevole che, là dove nessuno agisce, la chiesa svolga un’opera di supplenza in ambiti che non le competono specificamente, ma non può accettare di essere identificata con le istituzioni umanitarie. Si mantiene vigilante, per non lasciarsi ingenuamente coinvolgere in iniziative spettacolari e lucrative, per non entrare in concorrenza con le strutture civili che, attraverso l’impegno dei laici cristiani, è invece chiamata ad animare.
È in possesso di una parola divina ed è su questa parola che fa affidamento, resistendo alla tentazione di ricorrere a mezzi che gli uomini considerano più efficaci. Quando li impiega, può anche fare del bene, ma si limita all’elemosina, mette una pezza nuova su un vestito vecchio, mentre suo compito è creare un uomo, una società, un mondo completamente nuovi.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“La parola di Dio è efficace se è annunciata a uomini liberi da uomini liberi”
Prima Lettura (Am 7,12-15)
In quei giorni il sacerdote di Betél 12 Amasia disse ad Amos: “Vattene, veggente, ritirati verso il paese di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, 13 ma a Betèl non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno”. 14 Amos rispose ad Amasia:
“Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; 15 Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele”.
Bisogna risalire all’epoca di Salomone per trovare un periodo della storia d’Israele in cui ci sia stata tanta prosperità come al tempo di Geroboamo II (VIII secolo a.C.).
I nemici sono vinti e le terre al di là del Giordano riconquistate; i confini si estendono “dall’ingresso di Camat fino al mare dell’Arabà” (2Re 14,25) e, per accrescere la sensazione di sicurezza e tranquillità, in ogni città sono state costruite fortezze che custodiscono i tesori ricavati dall’intenso commercio con la Fenicia, con l’Arabia e lungo le rotte del mar Rosso. Sono state introdotte nuove tecniche agricole che hanno accresciuto la produzione; le industrie tessili e la tintoria sono fiorenti, le miniere di rame dell’Arabah funzionano a pieno ritmo; ovunque sorgono edifici splendidi e lussuosi e si registra un’autentica esplosione demografica.
Bisogna riconoscere che il paese è all’apice della potenza e il merito va attribuito alle capacità del sovrano.
E la religione? Non è mai stata tanto praticata e favorita. I santuari rigurgitano di pellegrini che accorrono per offrire sacrifici, adempiere voti e partecipare alle feste.
A modo suo, anche Geroboamo II è un uomo profondamente religioso: stipendia i sacerdoti e sostiene le spese dei templi che vuole adorni con ogni magnificenza.
È vero che, in molti santuari, il culto sconfina in pratiche pagane, come i culti della fertilità e la prostituzione sacra, ma, nel complesso, si deve benedire il Signore e ringraziare il re per il benessere di cui gode il paese.
Un giorno arriva a Betèl, dove sorge il più importante di questi templi, un uomo rude. Ha il volto bruciato dal sole perché trascorre la vita all’aperto conducendo al pascolo il bestiame e coltivando i campi. È Amos, il mandriano di Tekòa, una città della Giudea, situata ai confini del deserto, una decina di chilometri a sud di Betlemme.
Invece di rallegrarsi per la prosperità e la pace che regnano ovunque, egli scaglia invettive contro il re; attacca la pratica religiosa, le classi dirigenti, i proprietari terrieri e i commercianti. Il benessere – sostiene – è riservato ad alcuni privilegiati ed è pagato a caro prezzo dai poveri del paese. I ricchi ostentano il lusso più sfacciato, possiedono “palazzi estivi e palazzi invernali”, “case d’avorio”, case dalle innumerevoli stanze (Am 3,9.15), banchettano, passano di festa in festa (Am 6,1-7).
Da dove proviene la ricchezza che sperperano in bagordi? È frutto di angherie e soprusi nei confronti dei braccianti e dei contadini deboli e indifesi. Opprimono e sfruttano (Am 4,1), ricorrono a imbrogli legalizzati, falsificano le bilance, fissano a loro piacimento i prezzi dei prodotti (Am 8,5) e vendono il povero per un paio di sandali (Am 8,6).
Non sfuggono alla critica del profeta neppure le donne, le “grandi signore” che si abbandonano alle gozzoviglie (Am 4,1-4) e i giudici che “trasformano il diritto in veleno, gettano a terra la giustizia” e schiacciano l’indigente costringendolo a pagare tasse spropositate sul raccolto del grano (Am 5,7.10-12).
E la fervente pratica religiosa? È tutta una menzogna, è solo apparenza ed esteriorità. A Dio ripugnano le preghiere, il culto, l’incenso e gli olocausti se non si pone fine alle disuguaglianze scandalose, alle rapine e alle violenze (Am 5,21-24).
È in questo contesto sociale e politico che va ambientato il brano della lettura di oggi.
Di fronte alle denunce di Amos, il capo dei sacerdoti del tempio di Betèl, Amasia, si adonta e si preoccupa; teme la reazione di Geroboamo II, al quale, certo, qualcuno riferirà l’accaduto.
Per mettere a tacere il pecoraio di Tekòa, Amasia prima lo denuncia al re (Am 7,10), poi lo affronta direttamente: Bada come parli! – gli dice – Sei nel santuario del sovrano; questo è il tempio del regno. Torna nella tua terra se vuoi evitare guai! (v. 12).
Offeso, Amos ribatte: Io non sono un profeta di professione, non appartengo alla categoria di quei “cappellani di corte” che, come te, sono stipendiati dal sovrano. Non difendo interessi personali e, per guadagnarmi da vivere, non ho bisogno di compiacere o adulare qualcuno. Sono mandriano e raccoglitore di sicomori e so bastare a me stesso (vv. 14-15). Quanto al re, primo responsabile di questa società corrotta, ecco la sorte che lo attende: “Morirà di spada e Israele sarà condotto in esilio, lontano dal suo paese” (v. 11).
Trascorsero pochi anni e Samaria, la capitale, cadde sotto i colpi dell’esercito assiro. Così ebbe fine, come aveva promesso Amos, “l’orgia dei buontemponi” (Am 6,7).
Il profeta è l’intermediario di cui Dio si serve per comunicare la sua parola (Es 7,1; 4,10‑16; Ger 1,9). Per adempiere bene la sua missione, deve vivere in intima unione con il Signore e assimilarne pensieri e volontà. Per questo è chiamato a staccarsi da tutto ciò che può incrinare o disturbare questa sintonia spirituale: gli interessi personali, le convinzioni religiose e morali che si è fatto e che derivano dal modo di pensare della società in cui vive. Gli si chiede di rinunciare a tutto ciò che può compromettere la sua libertà di parola: le amicizie, i regali, la dipendenza economica, i compromessi con i potenti di questo mondo che, anche quando, come Geroboamo II, sembrano favorire la causa della fede, pregiudicano sempre la credibilità del messaggio.
Seconda Lettura (Ef 1,3-14)
3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
5 predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo,
6 secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia,
che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
7 nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue,
la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia.
8 Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
9 poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà,
secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito
10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi:
il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose,
quelle del cielo come quelle della terra.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi,
essendo stati predestinati secondo il piano di colui
che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà,
12 perché noi fossimo a lode della sua gloria,
noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.
13 In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità,
il vangelo della vostra salvezza
e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello
Spirito Santo che era stato promesso,
14 il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione di coloro
che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria.
Per otto domeniche consecutive leggeremo brani della Lettera agli efesini, uno scritto attribuito a Paolo, ma composto, verso l’anno 90 d.C., da un discepolo di Paolo.
Le comunità dell’Asia minore, che riconoscevano in lui il custode fedele del pensiero e dello spirito del maestro, considerarono la lettera opera dello stesso Paolo. Così, facendo riferimento alla sua autorità e rimanendo in linea con la tradizione apostolica, diedero una risposta adeguata ai problemi teologici sorti nel loro tempo.
La lettera esordisce con un lungo inno di benedizione a Dio per le meraviglie da lui operate in favore degli uomini.
La benedizione è la più caratteristica delle preghiere giudaiche. In ogni momento della giornata, il pio israelita pensa agli interventi di Dio in favore del suo popolo, ricorda i benefici da lui concessi e lo ringrazia pronunciando benedizioni. Quella della Lettera agli efesini è un inno commovente, sgorgato dal cuore di un cristiano dell’Asia minore, cantato durante le celebrazioni liturgiche e conservatoci dall’autore della lettera.
Inizia con una lode al Signore, che non è più chiamato “Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe”, ma Padre del Signore nostro Gesù Cristo (v. 3). È benedetto perché, avendoci inseriti in Cristo, ci ha resi partecipi di ogni benedizione spirituale.
Le benedizioni promesse ai patriarchi erano materiali, Dio si mostrava benevolo verso il suo popolo quando donava messi abbondanti, moltiplicava greggi e armenti, faceva crescere i figli come virgulti d’ulivo e rendeva le figlie splendide “come colonne d’angolo” (Sl 144,12).
Chi, mediante il battesimo, è entrato in Cristo, è colmato di benedizioni spirituali, che non sono in contrapposizione con quelle materiali, ma costituiscono una realtà nuova, un’offerta di beni imperituri, di una vita che va oltre gli orizzonti di questo mondo.
Dopo questa esclamazione gioiosa, l’inno presenta, nella prima strofa, il progetto d’amore ideato da Dio (vv. 4-6). Già prima della creazione del mondo, egli ha pensato alla salvezza di tutti gli uomini; ha voluto che divenissero un’unica persona in Cristo, che fossero partecipi della sua vita ed entrassero a far parte della sua famiglia. Questo è il destino che attende l’intera umanità: non la rovina, ma la gioia senza fine, “a lode e gloria della sua grazia”. La gratitudine dell’uomo è rivolta a Colui che non premia secondo i meriti, ma dona tutto gratuitamente, elargisce i suoi beni ai poveri, offre a chi non gli può presentare alcuna opera buona.
Nella strofa seguente (vv. 7-12), l’inno canta la condizione nuova dei credenti in Cristo. Essi sono redenti, riscattati gratuitamente dai loro peccati, a prezzo del sangue di Cristo (v. 7); sono stati introdotti nella conoscenza del progetto di Dio, non solo perché è stata loro rivelata la volontà salvifica del Signore, ma perché, effettivamente, in loro questa salvezza ha cominciato ad attuarsi in modo irresistibile (vv. 8-10); sono divenuti eredi degli stessi beni che il Padre dona al suo Unigenito (vv. 11-12).
L’immagine dell’eredità richiama, una volta di più, la gratuità dei doni di Dio. Tutto in lui è grazia e benevolenza e vuole che, fra i suoi figli, circoli sempre questo suo amore gratuito.
“Noi per primi abbiamo sperato in Cristo”, dichiara l’autore dell’inno, che colloca se stesso fra i giudei che hanno sùbito aderito alla fede (v. 12).
Nella strofa conclusiva (vv. 13-14), con un “voi”, egli si rivolge ai pagani che, dopo di lui, hanno ascoltato “la parola della verità, il vangelo della salvezza”. Ora, per grazia del Signore, anch’essi sono divenuti, insieme ai figli di Abramo secondo la carne, eredi delle promesse fatte ai patriarchi e alla loro discendenza.
La gioia che pervade l’intero inno deriva dalla certezza che la bontà di Dio nei confronti dell’uomo è incondizionata, non dipende dalla bontà dell’uomo, è pura grazia.
Quando, nella storia del mondo o nella vita personale, il male sembra avere il sopravvento, questo canto rammenta al credente che la vittoria finale apparterrà all’amore di Dio. Egli riuscirà comunque a portare a compimento il disegno che ha ideato “prima della creazione del mondo” (v. 4).
Vangelo (Mc 6,7-13)
Nella prima lettura ci siamo imbattuti in due personaggi significativi e contrapposti: Amasia, il sacerdote ben integrato nella struttura religiosa, colmo di benemerenze e privilegi e Amos, il mandriano rude che, improvvisamente, ha cominciato a fare il profeta.
Il primo è l’uomo di successo, acclamato e rispettato perché, essendo amico del potente di turno, ha raggiunto una posizione prestigiosa. Non è da invidiare: ha tutto, ma non è libero; in qualunque momento può essere ricattato dal sovrano che gli dà il pane, ma può anche negarglielo; è costretto a mostrare deferenza e venerazione incondizionate, ad essere sempre pronto a adulare, ad assecondare i giochi politici del suo protettore e a chiudere un occhio sulle sue malefatte.
Amos è povero, ma indipendente, può dire ciò che pensa, non ha nulla da perdere, nulla da difendere, non deve nulla a nessuno.
Poveri per essere liberi potrebbe essere il motto che riassume le condizioni poste da Gesù nel vangelo di oggi a coloro che sono chiamati ad annunciare la sua parola.
Devono assomigliare ad Amos, non ad Amasia.
Il brano si apre con l’invio in missione dei dodici (v. 7).
Tutti sono mandati, nessuno escluso, questo indica che l’annuncio del vangelo non è un’incombenza riservata ad alcuni membri della comunità. Il discepolo che non sente il bisogno di condividere con altri il dono ricevuto, probabilmente non è ancora convinto che, scoprendo Cristo, ha trovato il più prezioso dei tesori.
Gli apostoli sono inviati due a due, non per farsi compagnia, ma per una ragione teologica. A differenza dell’induismo, del buddismo e di tutte le religioni che propongono come ideale il raggiungimento della propria perfezione spirituale, del proprio equilibrio interiore, della propria purificazione – obiettivi questi che possono essere ottenuti anche nella solitudine e nell’isolamento più completi – il cristianesimo non può essere vissuto che in comunità e, per costituire una comunità, è necessario essere almeno in due. Ecco la ragione per cui anche l’evangelizzazione non è mai opera di individui che predicano le proprie intuizioni o ispirazioni personali. Chi annuncia il vangelo deve mantenersi in piena sintonia e comunione con la chiesa.
C’è un’altra novità importante introdotta da Gesù. I rabbini non andavano a cercarsi i discepoli, erano gli alunni che si recavano da loro per apprendere la Toràh. Ai suoi apostoli Gesù ingiunge di andare a offrire il messaggio evangelico agli uomini nelle loro case, negli ambienti in cui vivono; non devono aspettare che qualcuno li cerchi.
Infine, agli apostoli è conferito un potere. Può sorprendere che Gesù non dia loro l’autorità di comandare, di emanare disposizioni coercitive. L’unico potere che gli apostoli ricevono è lo stesso che ha esercitato Gesù: impartire ordini agli “spiriti immondi”. Per “spiriti immondi” si intendono tutte le forze che allontanano da Dio e dalla vita, suscitano cattivi sentimenti e causano oppressioni, violenze, ingiustizie. Dal confronto con queste forze negative che dominano nel mondo, la comunità cristiana uscirà certo vittoriosa, perché il Maestro l’ha investita di una forza irresistibile, il suo stesso Spirito.
Nella seconda parte del brano (vv. 8-9) vengono date le istruzioni riguardo all’equipaggiamento che i messaggeri del Vangelo possono portare con loro. Deve essere molto leggero: una sola tunica, un paio di sandali, un bastone e null’altro; il resto costituisce un bagaglio che appesantisce. I mezzi materiali devono essere ridotti all’essenziale.
Cominciamo dal bastone. Era l’arma del povero, per questo, nel vangelo di Matteo, Gesù lo proibisce (Mt 10,10). I discepoli di Cristo sono costruttori di pace, quindi, ripudiano tutti gli strumenti che richiamano l’uso della violenza.
Nel brano di oggi, invece, agli apostoli viene permesso. La ragione sta nel fatto che, nella Bibbia, il bastone ha anche un altro significato simbolico. Mosè e Aronne, in coppia (“due a due”, come raccomanda anche Gesù) hanno lottato contro le forze oppressive del faraone, hanno portato a compimento l’opera di liberazione del loro popolo servendosi di un bastone, segno della potenza di Dio. Con esso Mosè ha compiuto prodigi davanti al faraone (Es 7,9-12), ha steso la mano sul paese d’Egitto e ha fatto venire le cavallette (Es 10,13), ha diviso il mar Rosso (Es 14,16), ha fatto scaturire acqua dalla roccia (Es 17,5-6).
Anche i discepoli di Cristo, per realizzare l’opera di liberazione dell’uomo dagli “spiriti immondi” hanno in mano solo un bastone, possono contare su un’unica forza, quella consegnata loro da Gesù: la sua parola.
Poi è indicato ciò che non devono portare con sé: né pane, né bisaccia, né denaro… (vv. 8-9).
È evidente che qui Gesù ricorre a paradossi, ma bisogna fare attenzione a non dare interpretazioni riduttive alle sue parole, a non svigorire il messaggio, privandolo del suo contenuto provocatorio. È un’insensatezza ritenere che, se egli vivesse oggi, non sarebbe così severo e si adatterebbe alle esigenze della vita moderna. Allora non aveva dove posare il capo (Lc 9,58), ma oggi cambierebbe stile e non esiterebbe a investire, con scaltrezza, il denaro delle elemosine, per combattere i figli delle tenebre con le loro stesse armi.
I tempi sono cambiati, è vero, e le parole di Gesù non vanno prese alla lettera, tuttavia, da queste traspare nitida la preoccupazione che, fra i discepoli, si infiltri il lievito di questo mondo, la convinzione che l’efficacia della missione dipenda dalla quantità dei mezzi materiali che si hanno a disposizione.
Gesù non ha mai disprezzato i beni materiali, non ha mai presentato la miseria come ideale di vita, tuttavia ha messo in guardia i discepoli contro il pericolo di essere condizionati dalla ricchezza. Non è libero di dire la verità e di esprimere ciò che pensa chi deve compiacere a qualcuno, chi, come Amasia, è pagato e deve manifestarsi riconoscente.
Lungo i secoli la chiesa ha pagato a caro prezzo gli accordi e le alleanze con i potenti di questo mondo, i compromessi con chi le ha offerto privilegi, favori e garanzie. Li ha pagati con la perdita della libertà e dell’autonomia.
C’è un’altra ragione, ancora più importante, che spinge Gesù ad esigere dai suoi messaggeri che si presentino senza denaro e completamente spogli da ogni forma di potere. Chi ostenta superiorità, inevitabilmente genera sospetti e provoca rifiuti; chi lascia trasparire il desiderio di imporsi, di ottenere vittorie ideologiche, diviene scostante e fa nascere opposizioni. Gli uomini si fidano solo di chi non incute paura, di chi non umilia, per questo il modo più efficace per conquistarne la fiducia è di consegnare la propria vita nelle mani di coloro cui si offre il vangelo, mostrando che si dipende da loro anche per il proprio sostentamento.
Non è concesso il tascapane, semplicemente perché non serve, perché è un peso, un fastidio inutile. Al discepolo non è consentito conservare provviste per il giorno dopo; il pane che chiede al Padre è quello quotidiano e, se ne riceve di più e gliene avanza, subito lo porge a chi è nel bisogno.
Il completo distacco richiesto dal Maestro non implica solo la rinuncia ai beni materiali, ma anche il rifiuto delle idee preconcette, delle tradizioni, delle convinzioni retrograde che si è sempre tentati di trascinarsi dietro e alle quali si rimane facilmente aggrappati in modo emotivo e irrazionale. Sono pesanti fardelli certi usi, abitudini, pratiche devozionali, consuetudini religiose, legati a un contesto storico e culturale superato e da qualcuno ingenuamente confusi ed equiparati al vangelo.
Nella terza parte (vv. 10-11) Gesù tratta dell’accoglienza riservata ai suoi inviati: alcuni verranno ospitati con gioia e riconoscenza, altri saranno respinti con sdegno e disprezzo. Come reagire?
“Entrati in una casa, rimanetevi fino a che non ve ne andiate da quel luogo” (v. 10).
A prima vista questa raccomandazione sembra un invito a visitare una sola famiglia, trascurando le altre; in realtà Gesù mette in guardia da un grave errore che potrebbe compromettere l’opera dei suoi missionari: chi annuncia il vangelo troverà sempre persone pie e generose che lo ospiteranno in casa loro, ma, com’è facile immaginare, il primo alloggio non sarà dei migliori, sarà una sistemazione di fortuna, piuttosto precaria, nella quale bisognerà adattarsi a vivere.
In seguito però, i missionari incontreranno certamente gente ben disposta nei loro confronti e verrà loro offerta una residenza più confortevole, poi un’altra ancora migliore e così via finché avranno la possibilità di installarsi in palazzi.
Gesù raccomanda: rimanete nella prima casa. Ai discepoli si richiede una testimonianza di vita austera, sobria, aliena da qualsiasi ostentazione di lusso. In gioco c’è la credibilità stessa della missione.
E quando verranno scacciati? Dovranno scuotere la polvere dai loro piedi.
Era il gesto che ogni israelita compiva quando, lasciata la terra dei pagani, entrava nella terra santa. Esprimeva così la sua convinzione che “la terra partecipa del carattere dei suoi abitanti” (Nm 5,17) e che, per accomiatarsi dagli empi, fosse necessario liberarsi anche della loro polvere.
Gesù suggerisce ai discepoli di compiere questo gesto, non come un segno di rifiuto e di disprezzo, ma “a testimonianza per loro”. Si noti: per loro, non contro di loro.
Quella richiesta da Gesù è un’espressione di rispetto, è l’invito a non insistere più del dovuto, a non diventare assillanti, per non ottenere l’effetto contrario, quello di infastidire le persone e allontanarle definitivamente dalla fede.
Gli apostoli autentici sono attenti a non violare mai la libertà altrui, a non trasformarsi in strilloni fanatici e intolleranti. Sono coscienti di essere inviati a portare una proposta, non a ingaggiare battaglie teologiche. Il loro compito non è ottenere numerose conversioni, ma annunciare fedelmente la parola di Cristo. L’adesione o il rifiuto, i frutti più o meno abbondanti non dipendono da loro, ma dal tipo di terreno sul quale avranno sparso, in abbondanza, ma con dolcezza e rispetto, il seme.
L’ultimo versetto (v. 12) racconta il successo della missione degli apostoli. Con il potere conferito dal Maestro, essi realizzano l’opera di salvezza per la quale sono stati inviati. Segno di questa salvezza è la sconfitta di ogni forma di male, il male fisico (le malattie) e il male morale (l’espulsione dei demoni).
AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News