p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 11 Aprile 2021

1351

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 11 Aprile 2021.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

Link al Video

- Pubblicità -

I segni delle realtà invisibili

Secondo la Bibbia, l’uomo è fatto di terra, è legato alla terra, alle piante, agli animali e ciò è cosa buona. Non è imprigionato in un corpo, come riteneva la filosofia greca, ma gioisce di essere un corpo capace di autocoscienza, libertà e amore. Composto di materia, sente un intimo bisogno di entrare in contatto, in modo concreto e tangibile, anche con le realtà spirituali e, a questo suo bisogno, la liturgia risponde con i sacramenti, costituiti da segni e simboli che possono, questi sì, essere visti e toccati.

Chiedere all’uomo una fede disincarnata è esigere l’impossibile; ma è un errore anche pretendere, come Tommaso, di verificare ciò che non può essere percepito dai sensi.

La condizione in cui Gesù è entrato con la sua risurrezione, benché più vera della stessa realtà su cui oggi si posano i nostri occhi e le nostre mani, sfugge a qualunque verifica. Come il bimbo può contemplare il volto della madre solo dopo essere nato, l’uomo vedrà il Risorto solo quando avrà lasciato questo mondo. Già ora, però, gli sono offerti segni concreti delle realtà invisibili in cui crede e spera.

Se sulla terra è comparsa una società completamente nuova, se è sorta una comunità in cui i grandi divengono piccoli, il ricco si fa povero, il nemico è amato come un fratello e chi comanda si considera servo, allora si è di fronte a segni inequivocabili: Gesù è vivo e il suo Spirito opera nel mondo.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Dalla tua chiesa, Signore, il mondo si attende i segni che sei risorto”

Prima Lettura (At 4,32-35)

32 La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune.
33 Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia.
34 Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.

Ci sono parole che hanno un forte impatto sugli ascoltatori e altre invece che lasciano indifferenti. Al centro del brano di oggi si afferma che la testimonianza degli apostoli era data con forza e, dal contesto, risulta chiara anche la ragione per cui la loro predicazione era efficace: proclamavano la loro fede senza lasciarsi intimidire da minacce, insulti e violenze. Ai sommi sacerdoti Anna e Caifa, che avevano ingiunto di non parlare né di insegnare nel nome di Gesù, Pietro e Giovanni avevano replicato: “Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,19-20).

Ma non erano solo la franchezza e il coraggio con cui annunciavano il Risorto che davano grande forza alla loro parola. Fatti inconfutabili deponevano in favore della verità del loro messaggio; non erano i miracoli, ma la vita completamente nuova della comunità che presen­tava una caratteristica straordinaria, inaudita: i discepoli “avevano un cuore solo ed un’anima sola” e “nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (v. 32). Quasi compiaciuto di questa novità di vita, Luca scende nei dettagli e spiega: “Nessuno fra loro era bisognoso, perché tutti coloro che possede­vano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (vv. 34-35).

Non è la cronaca di ciò che accadeva a Gerusalemme negli anni 30-40 d.C., ma una pagina di catechesi. Prendendo spunto da alcuni fatti realmente accaduti (qualcuno aveva davvero dato prova di generosità eccezionale; cf. At 4,36-37), l’autore indica quali sono i sentimenti e i rapporti fraterni che lo Spirito vuole che si instaurino all’interno di una comunità cristiana autentica.

La competizione, il prevalere dei forti, dei più capaci sui più deboli e meno dotati, allora come oggi, erano ritenuti legittimi e addirittura stimolanti per lo sviluppo economico e sociale. Una comunità fondata sul servizio reciproco, sul dono gratuito e disinteressato, sulla condivisione dei beni, non poteva che sconvolgere l’ordine dei valori accettati da tutti come logici e normali. I cristiani, in Gerusalemme, apparivano come cittadini di un altro mondo e difatti riscuotevano grande ammirazione (v. 33). Ebrei e pagani si interrogavano sull’origine di una vita così straordinaria e la risposta unanime dei discepoli era: “Viviamo così perché Cristo è risorto!”.

Ora risulta chiaro che la testimonianza forte offerta dagli apo­stoli era la vita della nuova comunità, ispirata a sentimenti di comunione. Cristo risorto non poteva essere visto, ma la comunità fra­terna, nata dalla forza del suo Spirito, era sotto gli occhi di tutti.

I primi cristiani avevano ben compreso che la fede nella risurrezione è incompatibile con l’attaccamento a ciò che è effimero. Significativa al riguardo è la testimonianza indiretta di Luciano di Samosata (125-192 d.C.), il celebre autore di satire contro le superstizioni e le credulonerie fra le quali annoverava anche il cristianesimo. Con il suo linguaggio scanzonato, ecco come descrive l’impatto che la fede esercitava sulla vita dei cristiani del suo tempo: “Il loro primo legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegano gli dèi greci, adorano quel sapiente crocifisso e vivono secondo le sue leggi. Per la qual cosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò, se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, tosto diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca” (LUCIANO, La morte di Pellegrino, 13).

Oggi si ha quasi paura di ricordare ai credenti la prima, irrinunciabile conseguenza della fede nel Risorto: un modo completamente nuovo di gestire i beni. In un mondo in cui il principio del diritto alla proprietà privata serve spesso a coprire abusi e arbìtri, è guardato quasi con sospetto chi richiama il detto del salmista: “Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti” (Sl 24,1) o cita le parole del Signore: “La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Lv 25,23).

La luce della Pasqua denuncia l’insensatezza di chi accumula tesori, dimenticando che “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13,14) e che “non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via” (1 Tm 6,7-9).

Solo la comunità che predica e vive la fraternità, che pratica la condivisione dei beni testimonia con forza la presenza nel mondo dello Spirito del Risorto.

Seconda Lettura (1 Gv 5,1-6)

1 Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
2 Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, 3 perché in questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.
4 Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede.
5 E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? 6 Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità.

Racconta San Gerolamo che Giovanni, ormai vecchio, invitato a prendere la parola durante l’assemblea eucaristica, non faceva che ripetere la stessa esortazione: “Figliolini miei, amatevi gli uni gli altri”, e a chi gli chiedeva di insegnare qualcosa di nuovo, rispondeva: “È il comandamento del Signore; non ve n’è un altro e questo è sufficiente”.

L’amore al fratello è il tema di questa lettera che ci accompagnerà durante le settimane della Pasqua. È stata scritta verso la fine del I secolo d.C., in un tempo di crisi. Nelle comunità cristiane si erano diffuse idee teologiche incompatibili con la fede: c’era chi negava che Gesù fosse il Cristo e chi sosteneva che il figlio di Dio non si era realmente incarnato, ma aveva solo assunto sembianze umane; c’era chi coltivava il disprezzo per la materia in favore di una malintesa esaltazione dello spirito; c’era soprattutto chi trascurava la pratica della carità, ritenendo che, per salvarsi, bastasse la conoscenza della verità.

Fin dall’inizio della sua lettera, Giovanni richiama la concretezza dell’incarnazione del figlio di Dio: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto, ciò che abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… Ciò che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi… perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,1-4). Egli introduce la medesima concretezza nel campo morale: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Gv 3,18).

Il messaggio di tutta la lettera potrebbe essere sintetizzato nella frase che troveremo fra quattro domeniche: “Fratelli, amiamoci gli uni gli altri, perché chi ama è generato da Dio!” (1 Gv 4,7).

Il brano di oggi sembra rivolto ai cristiani che sono stati battezzati durante la notte di Pasqua e che, mediante la fede, sono divenuti figli di Dio. Dopo aver affermato che chi crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio, Giovanni deduce subito la conseguenza di questa nuova vita: chi ama Colui dal quale è stato generato, deve anche amare coloro che da Lui sono stati generati, cioè, i fratelli (v. 1).

Non c’è fondamento più solido su cui costruire un’umanità nuova. Se siamo figli di un unico Padre, a qualunque razza apparteniamo, qualunque sia la religione che pratichiamo o la cultura in cui siamo nati e cresciuti, tutti siamo amati da Dio e tutti siamo chiamati a effondere sui fratelli l’amore ricevuto dal Padre. Non ama Dio chi si disinteressa dell’uomo e la vera religione non può essere disgiunta dalla pratica dell’amore.

Nell’ultima parte della lettura (vv. 5-8) compaiono due immagini abbastanza enigmatiche. Con insistenza si afferma che Gesù “è venuto con l’acqua e con il sangue”.

I significati possibili di questa espressione sono molteplici, ma il più chiaro è il riferimento al costato trafitto. Nel vangelo, Giovanni ricorda che, dopo la morte cruenta di Gesù, “uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscirono sangue e acqua” (Gv 19,34).

Acqua e sangue, nella Bibbia, indicano la vita. Si tratta della vita che Gesù è venuto a portare sulla terra e che ha donato all’umanità dall’alto della croce. Il suo “soffio di vita” (Ap 11,11) è lo Spirito, quello Spirito che oggi egli continua a offrire attraverso i due sacramenti evocati dall’acqua e dal sangue: il battesimo e l’eucaristia.

Vangelo (Gv 20,19-31)

19 La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. 20 Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
21 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. 22 Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; 23 a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.
24 Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”.
26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. 27 Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. 28 Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. 29 Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”.
30 Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. 31 Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Il brano di oggi è diviso in due parti che corrispondono alle apparizioni del Risorto. Nella prima (vv. l9-23) Gesù comunica ai discepoli il suo Spirito e con esso dà loro il potere di vincere le forze del male. È lo stesso brano che ritroveremo e commenteremo a Pentecoste. Nella seconda (vv. 24-31) è raccontato il famoso episodio di Tommaso.

Il dubbio di questo apostolo è diventato proverbiale. A chi manifesta qualche diffidenza si è soliti dire: “Sei incredulo come Tommaso!”. Eppure, a ben vedere, non pare abbia fatto nulla di male: chiedeva solo di vedere ciò che gli altri avevano visto. Perché pretendere solo da lui una fede basata sulla parola?

Ma davvero Tommaso è stato l’unico ad avere dubbi, mentre gli altri discepoli sarebbero arrivati in modo facile e immediato a credere nel Risorto? Non pare proprio che le cose siano andate così.

Nel vangelo di Marco si dice che Gesù apparve agli undici “e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato” (Mc 16,14). Nel vangelo di Luca il Risorto si rivolge agli apostoli stupiti e spaventati e chiede: “Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?” (Lc 24,38). Nell’ultima pagina del vangelo di Matteo si dice addirittura che, quando Gesù apparve ai discepoli su un monte della Galilea (quindi molto tempo dopo le apparizioni a Gerusalemme), alcuni ancora dubitavano (Mt 28,17).

Tutti dunque hanno dubitato, non soltanto il povero Tommaso! Come mai allora l’evangelista Giovanni sembra voler concentrare su di lui i dubbi che hanno attanagliato anche gli altri? Cerchiamo di capire.

Quando Giovanni scrive (verso l’anno 95 d.C.), Tommaso è morto da qualche tempo, dunque, l’episodio non è certo riferito per mettere in cattiva luce questo apostolo. Se vengono posti in risalto i problemi di fede che ha avuto, la ragione è un’altra: l’evangelista vuole rispondere agli interrogativi ed alle obiezioni che i cristiani delle sue comunità sollevano con crescente insistenza. Si tratta di cristiani della terza generazione, di persone che non hanno visto il Signore Gesù. Molti di loro non hanno nemmeno conosciuto qualcuno degli apostoli. Fanno fatica a credere, si dibattono in mezzo a tanti dubbi, vorrebbero vedere, toccare, verificare se il Signore è veramente risorto. Si chiedono: quali sono le ragioni che ci possono indurre a credere? È ancora possibile per noi fare l’esperienza del Risorto? Ci sono delle prove che egli è vivo? Come mai non appare più? Sono le domande che anche noi oggi ci poniamo.

Ad esse, Marco, Luca e Matteo rispondono dicendo che tutti gli apostoli hanno avuto esitazioni. Non sono arrivati né subito né con facilità a credere nel Risorto, anche per loro il cammino della fede è stato lungo e faticoso, malgrado Gesù avesse dato tanti segni che era vivo, che era entrato nella gloria del Padre.

La risposta di Giovanni è diversa: egli prende Tommaso come simbolo della difficoltà che ogni discepolo incontra per arrivare a credere. Difficile sapere la ragione per cui ha scelto proprio questo apostolo, forse perché ha avuto più difficoltà o ha impiegato più tempo degli altri ad avere fede.

Ciò che Giovanni vuole insegnare ai cristiani delle sue comunità (e a noi) è che il Risorto possiede una vita che sfugge ai nostri sensi, una vita che non può essere toccata con le mani né vista con gli occhi, può solo essere raggiunta mediante la fede. Questo vale anche per gli apostoli che pure hanno fatto un’esperienza unica del Risorto.

Non si può aver fede in ciò che si è visto. Non si possono avere dimostrazioni, prove scientifiche della risurrezione. Se qualcuno pretende di vedere, constatare, toccare, deve rinunciare alla fede.

Noi diciamo: “Beati coloro che hanno visto”. Per Gesù, invece, beati sono coloro che non hanno visto, non perché a loro costa di più credere e quindi hanno maggiori meriti, sono beati perché la loro fede è più genuina, più pura, anzi, è l’unica fede pura. Chi vede ha la certezza dell’evidenza, possiede la prova inconfutabile di un fatto.

Tommaso compare altre due volte nel vangelo di Giovanni e non fa mai – diremmo noi – una bella figura, ha sempre difficoltà a capire, equivoca, fraintende le parole e le scelte del Maestro.

Interviene una prima volta quando, ricevuta la notizia della morte di Lazzaro, Gesù decide di andare in Giudea. Tommaso pensa che seguire il Maestro significhi perdere la vita. Non comprende che Gesù è il Signore della vita e, sconsolato e deluso, esclama: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11,16).

Durante l’ultima cena Gesù parla della via che egli sta percorrendo, una via che passa attraverso la morte per introdurre nella vita. Tommaso interviene di nuovo: “Signore non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?” (Gv 14,5). È pieno di perplessità, di esitazioni e di dubbi, non riesce ad accettare ciò che non capisce. Lo dimostra una terza volta nell’episodio narrato nel brano di oggi.

Sembra quasi che Giovanni si diverta a tratteggiare in questo modo la figura di Tommaso; ma alla fine gli rende giustizia: mette sulla sua bocca la più alta, la più sublime delle professioni di fede. Nelle sue parole è riflessa la conclusione dell’itinerario di fede dei discepoli.

All’inizio del vangelo, i primi due apostoli si rivolgono a Gesù chiamandolo Rabbì (Gv 1,38). È il primo passo verso la comprensione dell’identità del Maestro. Non passa molto tempo e Andrea, che ha già capito molto di più, dice a suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il messia” (Gv 1,41). Natanaele intuisce subito con chi ha a che fare e dichiara a Gesù: “Tu sei il Figlio di Dio” (Gv 1,49). I samaritani lo riconoscono come il salvatore del mondo (Gv 4,43), la gente come il profeta (Gv 6,14), il cieco nato lo proclama Signore (Gv 9,38), per Pilato è re dei giudei (Gv 19,19). Ma è Tommaso a dire l’ultima parola sull’identità di Gesù, lo chiama: mio Signore e mio Dio. Un’espressione che la Bibbia riferisce a JHWH (Sl 35,23). Tommaso è dunque il primo a riconoscere la divinità di Cristo, il primo che arriva a capire cosa intendeva dire Gesù quando affermava: “Io e il Padre siamo uno” (Gv 10,30).

La conclusione del brano (vv. 30-31) presenta la ragione per cui Giovanni ha scritto il suo libro: ha raccontato dei “segni” – non tutti, ma quelli sufficienti – per due ragioni: per suscitare o confermare la fede in Cristo e perché, attraverso questa fede, si giunga alla vita.

Il quarto evangelista chiama i miracoli segni. Gesù non li ha compiuti per impressionare coloro che vi assistevano, anzi ha avuto parole di condanna nei confronti di chi non credeva se non vedeva prodigi (Gv 4,48) e Giovanni non li racconta per stupire i suoi lettori, per “dimostrare” il potere divino di Gesù.

I segni non sono prove, ma rivelazioni sulla persona di Gesù, sulla sua natura e sulla sua missione. Arriva a credere in modo solido e duraturo chi, dal fatto materiale, si eleva alla realtà che esso indica. Non comprende il segno chi, nella distribuzione dei pani, non coglie che Gesù è il pane della vita, o, nella guarigione del cieco nato, non riconosce che Gesù è la luce del mondo, o nella rianimazione di Lazzaro non vede in Gesù il Signore della vita.

Nell’epilogo del vangelo, Giovanni usa la parola segni in senso ampio: intende tutta la rivelazione della persona di Gesù, i suoi gesti di misericordia (le guarigioni, la moltiplicazione dei pani) e le sue parole (Gv 12,37). Chi legge il suo libro e comprende questi segni si trova davanti, nitida, la persona di Gesù ed è invitato a fare una scelta. Opterà per la vita chi riconoscerà in lui il Signore e gli darà la sua adesione.

Ecco l’unica prova che è offerta a chi cerca ragioni per credere: lo stesso vangelo. Lì risuona la parola di Cristo, lì rifulge la sua persona. Non ci sono altre prove all’infuori di questa stessa Parola.

Per capire, vale la pena rifarsi a quanto Gesù ha detto nella parabola del buon Pastore: “Le mie pecore riconoscono la mia voce” (Gv 10,4-5.27). Non sono necessarie apparizioni, nel vangelo risuona la voce del Pastore e, per le pecore che gli appartengono, il suono inconfondibile della sua voce basta per farlo riconoscere e per attirare a lui.

Ma dove si può ascoltare questa voce? Dove risuona questa parola? È possibile ripetere oggi l’esperienza che gli apostoli hanno fatto nel giorno di Pasqua e “otto giorni dopo”? Come?

Avremo sicuramente notato che ambedue le apparizioni avvengono di domenica. Avremo notato anche che coloro che fanno l’esperienza del Risorto sono gli stessi (…uno più, uno meno), che il Signore si presenta con le stesse parole: “La pace sia con voi” e che, in ambedue gli incontri, Gesù mostra i segni della sua passione. Ci sarebbero altri particolari, ma bastano questi quattro per aiutarci a rispondere alle domande che ci siamo posti.

I discepoli si trovano riuniti in casa. L’incontro al quale Giovanni allude è chiaramente quello che avviene nel giorno del Signore, quello in cui, ogni otto giorni, tutta la comunità è convocata per la celebrazione dell’eucaristia. Quando tutti i credenti sono riuniti, ecco comparire il Risorto. Egli, per bocca del celebrante, saluta i discepoli e augura, come nella sera di Pasqua e otto giorni dopo: “La pace sia con voi”.

È quello il momento in cui Gesù si manifesta vivo ai discepoli. Chi, come Tommaso, diserta gli incontri della comunità, non può fare l’esperienza del Risorto (vv. 24-25), non può udire il suo saluto e la sua Parola, non può accogliere la sua pace e il suo perdono (vv. 19.26.23), sperimentare la sua gioia (v. 20), ricevere il suo Spirito (v. 22). Chi nel giorno del Signore rimane in casa, magari per pregare da solo, può sì fare l’esperienza di Dio, ma non quella del Risorto, perché questi si rende presente là dove la comunità è radunata.

E chi non incontra il Risorto che fa? Come Tommaso avrà bisogno di prove per credere, ma di prove non ne otterrà mai.

Contrariamente a quanto si vede raffigurato nei quadri degli artisti, nemmeno Tommaso ha messo le mani nelle ferite del Signore. Dal testo non risulta che egli abbia toccato il Risorto. Anch’egli è giunto a pronunciare la sua professione di fede dopo aver ascoltato la voce del Risorto, assieme ai fratelli della comunità. E la possibilità di fare questa esperienza è offerta ai cristiani di tutti i tempi… ogni otto giorni.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: per gentile concessione di Settimana News