p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 10 Gennaio 2021

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 10 gennaio 2021.
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Battesimo di Gesù: Volle risalire con noi da un abisso

Ai luoghi biblici è legato spesso un significato teologico. Il mare, il monte, il deserto, la Galilea delle genti, la Samaria, il fiume Giordano, le terre al di là del lago di Genezaret sono molto più di semplici indicazioni geografiche (spesso neppure del tutto esatte).

Luca non specifica il luogo dove è avvenuto il battesimo di Gesù, ma vi allude Giovanni: “Avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando” (Gv 1,28). La tradizione ha giustamente localizzato l’episodio a Betabàra, il guado dove anche il popolo d’Israele, guidato da Giosuè, ha attraversato il fiume ed è entrato nella Terra promessa.

Nel gesto di Gesù sono dunque presenti richiami espliciti al passaggio dalla schiavitù alla libertà e all’inizio di un nuovo esodo verso la vera Terra promessa.

Betabàra ha anche un altro richiamo, meno evidente, ma altrettanto significativo: i geologi assicurano che questo è il punto più basso della terra (400 m. sotto il livello del mare).

La scelta di iniziare da lì la vita pubblica non può essere casuale. Gesù, venuto dalle altezze del cielo per liberare l’uomo, è sceso fin nell’abisso più profondo per mostrare che vuole la salvezza di ogni uomo, anche del più derelitto, anche di colui che la colpa e il peccato hanno trascinato in un baratro da cui nessuno può immaginare sia possibile risalire. Dio non dimentica e non abbandona nessuno dei suoi figli.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“ È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini”.

Prima Lettura: (Is 42,1-4.6-7)

1 Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.
2 Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
3 non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
4 non verrà meno e non si abbatterà,
finché non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.
6 “Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
7 perché tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”.

Nella seconda parte del libro di Isaia entra in scena un personaggio misterioso che l’autore chiama: il “servo del Signore”. La sua storia viene raccontata in quattro brani (Is 42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12).

Chi è costui? Si tratta di un individuo concreto o di una figura simbolica che rappresenta tutto il popolo di Israele? I biblisti non sono ancora riusciti a dare una risposta sicura e non è nemmeno tanto im­portante averla. Ciò che ci interessa è che in questo Servo del Signore i primi cristiani hanno immediatamente riconosciuto l’imma­gine di Gesù (At 8,30-35). Come è avvenuta questa identificazione?

Tutto inizia in quel drammatico venerdì, 7 aprile dell’anno 30 d.C., giorno in cui Gesù viene giu­stiziato. I discepoli, sconvolti, si chiedono come mai la vita di un uomo buono e giusto si sia conclusa con un fallimento. Cercano nelle Scritture una soluzione all’enigma e, nel libro di Isaia, trovano la storia di questo Servo che, dopo un processo iniquo, viene tolto di mezzo da quelle stesse persone che egli voleva liberare. Capiscono: Dio non salva concedendo la vittoria, il successo, il dominio, l’umiliazione dei nemici, ma mediante la sconfitta, il dono della vita. Ciò che il profeta aveva detto riguardo al “servo del Signore” si è realizzato pienamente in Gesù di Nazaret.

La lettura di oggi ci riporta l’inizio della storia di questo Servo.

Viene descritta anzitutto la sua elezione (v. 1).

Questa parola ha in noi delle risonanze non sempre positive: ci richiama la preferenza nei confronti di qualcuno e l’esclusione degli altri. Non ci piace sentir parlare di popolo “eletto”, di stirpe “eletta” perché queste espressioni risvegliano i drammatici ricordi della follia provocata dall’illusione di appartenere ad una “razza eletta”.

L’elezione di Dio non ha nulla a che vedere con l’esclusivismo, il particolarismo, il separatismo. Quando Dio sceglie una persona o un popolo, lo fa solo per affidargli una missione (sempre difficile, gravosa, poco gratificante), per chiedergli un servizio in favore degli altri.

 È facile, purtroppo, per chi è stato scelto dal Signore, interpretare la sua elezione secondo categorie e criteri umani e accampare diritti a onori e privilegi. Il personaggio di cui ci parla la lettura viene, fin dall’inizio, identificato non come signore, ma come “servo”, incaricato di portare a termine un’impresa impegnativa. Chi gli darà la forza?

L’uomo “è carne”, cioè, è rivestito di debolezza. Quando il Signore chiede a qualcuno di svolgere un compito, gli dà anche la capacità per adempierlo. Al suo “servo” il Signore comunica come sostegno il suo Spirito, la sua forza irresistibile.

Subito si accenna anche alla missione affidata a questo “servo eletto”: egli è destinato a portare il diritto alle nazioni (v. 1), a far trionfare nel mondo “la giustizia”, “la giustizia di Dio” che consiste nella sua benevolenza, nella sua salvezza.

Nei versetti seguenti (vv. 2-5) viene descritto come il Servo attuerà la sua missione. Si comporterà in modo inatteso: non si imporrà con la forza, con la pressione giuridica, con le minacce di sanzioni contro chi si oppone alle sue disposizioni. Non griderà, non alzerà la voce come fanno i re quando proclamano i loro programmi o millantano nelle piazze le loro imprese. Non sarà intollerante e intransigente con i deboli. Non condannerà nessuno. Recupererà chi ha sbagliato invece di annientarlo e distruggerlo, ricostruirà con pazienza e rispetto ciò che sta andando in rovina. Per lui non ci saranno mai casi perduti, situazioni irrecuperabili.

Sarà anche tentato dallo scoraggiamento di fronte ad un’opera tanto ardua, ma si manterrà fermo e deciso nel portarla avanti e non arretrerà di fronte a nessun ostacolo.

Servendosi di immagini, l’ultima parte della lettura (vv. 6-7) sviluppa la missione del Servo: egli sarà luce per le nazioni, aprirà gli occhi ai ciechi, libererà i pri­gionieri e gli schiavi che camminano nelle tenebre.

Il racconto sul Servo del Signore è stato composto da un autore anonimo e poi collocato nel libro di Isaia circa 500 anni prima della nascita di Gesù. Non sap­piamo a chi concretamente si riferisse il profeta; ciò che però è sicuro è il fatto che Gesù ha realizzato tutto quanto è scritto nel libro di Isaia: egli è stato il Servo fedele a Dio. Quasi tutti i versetti di questa lettura, infatti, sono riportati nei vangeli e applicati a Gesù (cf. Mt 3,17; 12,18-21; 17,5).

Seconda Lettura (At 10,34-38)

34 Pietro prese la parola e disse: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, 35 ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto.
36 Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti.
37 Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; 38 cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”.

La lettura riporta una parte del discorso tenuto da Pietro nella casa di Cornelio a Cesarea.

Nella chiesa primitiva un problema mol­to dibattuto divideva le comunità: si poteva o no concedere il battesimo ai pa­gani? Pietro, inizialmente, era piuttosto restio, condizionato com’era dal pregiudizio, profondamente radicato in Israele, che gli altri popoli fossero immondi.

Un giorno, mentre si trovava in preghiera a Giaffa, il Signore gli rivelò che nessuna creatura di Dio è impura e profana. Di fronte a lui tutti sono ugualmente puri e privilegiati. Tutti sono indistintamente chiamati alla salvezza, perché egli è il Signore di tutti (Rm 10,12).

L’espressione Dio non fa preferenza di persone – impiegata in questo brano – viene ripresa più volte nel Nuovo Testamento (Rm 2,11; Gal 2,6; 1Pt 1,17) per denunciare la pericolosa tentazione di proiettare in Dio le nostre discriminazioni e mettere in guardia dall’illusione che il Signore tratti in modo diverso gli uomini, in base alla confessione religiosa cui appartengono.

Il discorso di Pietro continua presentando una breve sintesi della vita di Gesù (vv. 37-38). Con l’espressione “egli passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” viene riassunta la sua missione. Egli si è impegnato contro ogni forma di male, contro tutto ciò che impedisce la vita dell’uomo.

L’opera da compiere fu difficile e impegnativa, ma Gesù riuscì a portarla a termine perché era colmo dello Spirito del Signore e perché Dio era con lui.

Viene notato anche il tempo e il luogo in cui iniziò a manife­starsi la salvezza: tutto ebbe inizio in Galilea quando Giovanni cominciò a battezzare lungo il Giordano.

Con queste parole Pietro definisce di nuovo il periodo della vita di Gesù cui deve far riferimento la fede dei credenti: la vita pubblica, “dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui egli è stato di tra noi assunto in cielo” (At 1,22).

Vangelo (Mc 1,7-11)

In quel tempo 7 Giovanni predicava: “Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. 8 Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”.
9 In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. 10 E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. 11 E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto”.

I primi versetti di questo brano (vv. 7-8) li abbiamo già meditati nella seconda domenica di Avvento. Presentano, in sintesi, la differenza fra il battesimo di Giovanni e quello di Gesù. Apparentemente uguali, i due riti hanno un significato completamente diverso. Il primo è un’abluzione esterna, indica la purificazione dal peccato, la rottura con una condotta di vita contraria alla legge di Dio e presuppone la decisione di non volersi più macchiare con altre trasgressioni. Il secondo, il battesimo con lo Spirito Santo, non è un lavacro esteriore, ma un prodigio operato dal Signore nell’intimo dell’uomo, è l’infusione di un’acqua zampillante apportatrice di fecondità e di vita, è la sostituzione del cuore antico con un cuore nuovo, capace di rispondere sì alla proposta d’amore fatta da Dio. Il battesimo di Giovanni segnava la fine di un lungo e travagliato fidanzamento, quello di Gesù era l’inizio della festa di nozze.

Dopo aver rilevato il diverso valore dei due battesimi, Marco che, a differenza di Matteo e Luca, non fa alcun accenno all’infanzia di Gesù, per la prima volta mette in scena il protagonista del suo vangelo e lo fa con una formula solenne, impiegata spesso dai profeti nei loro oracoli: “In quei giorni…” (Gl 3,2); poi ricorda il nome del villaggio da cui proviene, Nazaret in Galilea (v. 9).

Non dice né che età avesse né a quale famiglia appartenesse, gli interessa solo indicare come, quando e dove è cominciata la manifestazione del vangelo di Dio al mondo: tutto è iniziato presso il Giordano, il fiume che scorre tranquillo nella steppa di Gerico, segnando il confine fra il deserto orientale e la terra promessa, dove Giosuè ha introdotto il popolo uscito dall’Egitto. Là, dove accorrevano tutti gli abitanti della Giudea per farsi battezzare (Mc 1,5-6), un giorno comparve, fra i peccatori, anche Gesù, proveniente dalla Galilea, la regione abitata da israeliti che l’aristocrazia religiosa di Gerusalemme riteneva semipagani. Scendendo nell’acqua assieme ai peccatori, egli mostrò di voler condividere la loro condizione, di volersi mettere al loro fianco per accompagnarli nell’esodo dalla schiavitù verso la libertà.

In questa scena si può già cogliere la novità del Dio cristiano. Egli non è un Dio che rimane lontano, in cielo, a impartire disposizioni e a controllare chi le osserva e chi le vìola; ma si fa uno di noi, diviene solidale con l’umanità non nel peccato, ma nel portarne le conseguenze che coinvolgono sempre, come ben sappiamo, anche chi non ha peccato.

Noi siamo affezionati al male e, nelle preghiere, più che chiedere al Signore di farcelo evitare, imploriamo che ci scampi, con qualche intervento prodigioso, dalle sue tragiche conseguenze: malattie, fame, miseria, angosce, dissidi familiari, guerre…

Dio, che non si rassegna a soluzioni palliative, ha inviato suo figlio per distruggere il male alla radice e creare un mondo nuovo, senza peccato, un mondo in cui si compiranno tutte le sue promesse di bene: “I granai saranno pieni e traboccheranno di frutti di ogni specie” (Sl 144,13), “abbonderà il frumento nel paese” (Sl 72,16), “i poveri mangeranno e saranno saziati” (Sl 22,27), “i miti possederanno la terra e godranno di immensa pace” (Sl 37,11). Non si tratta di immagini, ma di realtà concrete che è possibile veder attuate, se ci si fida di Cristo e della sua parola.

Tutti gli evangelisti danno importanza al battesimo di Gesù perché ha segnato l’inizio della sua vita pubblica. Ma non è tanto sull’episodio in sé che essi vogliono attirare l’attenzione, quanto sulla rivelazione del cielo che, in questo avvenimento, è possibile cogliere. I vangeli sinottici ce la presentano con tre immagini ben comprensibili per i loro lettori: l’apertura dei cieli, la colomba, la voce dal cielo (vv. 10-11).

In Matteo e Luca pare che tutti i presenti abbiano contemplato i cieli che si spalancavano, abbiano visto lo Spirito che scendeva come colomba e abbiano udito la voce dal cielo. In Marco, invece, Gesù è l’unico destinatario della visione e della rivelazione: “Uscito dall’acqua, egli vide…” (v. 10). È stato quello il momento della sua vocazione, quello in cui il Padre gli ha manifestato la missione alla quale lo chiamava.

Vide anzitutto i cieli che si spezzavano.

L’immagine è subito chiara per chi conosce le Scritture: l’evangelista si riferisce a un celebre testo del profeta Isaia.

Negli ultimi secoli prima di Cristo, il popolo d’Israele aveva avuto la sensazione che il cielo si fosse chiuso. Sdegnato per i peccati e le infedeltà del suo popolo, Dio si era ritirato nel suo mondo, aveva smesso di inviare profeti e sembrava deciso a rompere ogni dialogo con l’umanità. I pii israeliti si chiedevano: quando avrà fine questo silenzio che tanto ci angoscia? Il Signore non tornerà a parlarci, non ci mostrerà più il suo volto sereno, come nei tempi antichi? E lo invocavano così: “Signore, tu sei nostro Padre; noi siamo l’argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Non adirarti troppo, non ricordarti per sempre delle nostre iniquità… Ah, se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 64,7-8; 63,19).

Nel battesimo di Gesù i cieli si sono squarciati: sono stati ristabiliti per sempre i rapporti fra Dio e l’uomo, sono cadute le frontiere e sono finite tutte le paure dei castighi di Dio. Ora appare evidente quanto siano assurdi i timori di chi ancora lo immagina irato, vendicativo e violento. Non ci si deve più affannare per placarlo perché egli non rifiuta nessuno, non si comporta da giudice, ma sta sempre dalla parte dell’uomo.

Il secondo oggetto della “visione” è lo Spirito che scende su Gesù come una colomba.

Quando Dio destina qualcuno a una grande missione, gli dona sempre anche la forza per portarla a compimento. Nei re, nei profeti, nei giudici egli infondeva il suo spirito. Nel momento in cui invia il suo “servo fedele”, dichiara: “Ho posto il mio spirito su di lui egli porterà il diritto alle nazioni… Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta” (Is 42,1-4) e il “servo” inviato, presa coscienza della forza divina entrata in lui, esclama: “Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri” (Is 61,1).

All’inizio della sua vita pubblica, anche Gesù fu riempito della forza dello Spirito.

Per aiutare a cogliere il messaggio teologico presente in quest’evento, l’evangelista ricorre all’immagine della colomba.

Sono numerosi i richiami biblici legati a questa figura. Il primo potrebbe essere alla creazione, al momento in cui “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1,2), come una colomba sopra il suo nido, spiegavano alcuni rabbini.

L’oceano primordiale, simbolo del caos e degli elementi ostili, era stato allora dominato dal “vento divino” e sulla terra era sbocciata la vita. Posandosi su Gesù, lo spirito di Dio è entrato nel mondo e, con la sua presenza, ha dato inizio alla nuova creazione.

Il secondo richiamo, il più immediato, è alla colomba del diluvio, accolta da Noè nell’arca quando, sul far della sera, tornò con il ramoscello d’ulivo (Gn 8,8-12). Fu quello il segno della pace ristabilita fra il cielo e la terra, dopo la distruzione di ogni forma di peccato.

Da secoli, da quando il cielo si era chiuso, lo spirito del Signore pareva non trovare più alcuno su cui posarsi e, come la colomba del diluvio, attraversava il cielo per poi tornare a Dio. Ora scende su Gesù, pone in lui la sua stabile dimora e costituisce la forza che gli consentirà di portare a compimento la sua opera di salvezza.

La colomba richiama anche la tenerezza e l’amore. Mosso dallo Spirito, Gesù si accosterà ai peccatori sempre con la dolcezza e l’amabilità della colomba.

Infine si udì una voce dal cielo.

L’espressione è ben nota: la impiegavano i rabbini per attribuire a Dio un’affermazione. Nel nostro brano ha lo scopo di definire, in nome del Signore, l’identità di Gesù.

Marco scrive dopo la Pasqua e deve rispondere agli interrogativi che i discepoli si pongono. Il loro Maestro è stato condannato come un bestemmiatore dai garanti della purezza della fede d’Israele; è apparentemente uno sconfitto, un reietto e abbandonato dal Signore. La domanda inquietante è: Dio ha forse condiviso questa sentenza?

Ai cristiani delle sue comunità Marco riferisce il giudizio del Signore con una frase che allude a tre testi dell’AT.

Tu sei il figlio mio: è la citazione del Sl 2,7. Il giorno dell’incoronazione regale costituiva, per il sovrano davidico che si insediava in Gerusalemme, una nuova nascita, era il momento in cui Dio lo dichiarava suo figlio, gli conferiva i suoi poteri e la sua forza, lo presentava, come suo luogotenente, al mondo.

Per Gesù l’investitura da parte del Padre ha avuto luogo al Giordano. Lì egli è stato indicato a tutti come il salvatore, come il volto umano del Dio che esiste da tutta l’eternità. “A quale degli angeli – si chiede l’autore della Lettera agli ebrei – Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio?” (Eb 1,5). Nel giorno del suo battesimo, il Figlio che, da tutta l’eternità, esiste “nel seno del Padre” (Gv 1,18) “è nato” come messia.

Nella cultura semitica il termine figlio non indica solo la generazione biologica, implica anche l’affermazione di una somiglianza. Rivolgendosi a Gesù come a suo figlio, Dio garantisce di riconoscersi in lui, nelle sue parole, nelle sue opere e, soprattutto, nel suo gesto supremo di amore: il dono della vita. Chi vuole conoscere il Padre non deve far altro che contemplare questo figlio.

È significativo il fatto che Dio lo riconosca come figlio proprio nel momento in cui Gesù si mette a fianco dei peccatori. Il suo è l’unico volto autentico del Padre, gli altri volti, quello, soprattutto, del giudice che condanna, non sono che maschere che gli uomini gli hanno applicato.

Il prediletto. Il riferimento è al racconto della prova cui è stato sottoposto Abramo: gli era stato chiesto di offrire il figlio Isacco, l’unico, il prediletto (Gn 22,2.12.16). Applicando a Gesù questo titolo, Dio invita a non considerarlo un re o un profeta come gli altri: egli è, come Isacco, l’unico, l’amato.

Nel quale mi sono compiaciuto. Conosciamo già quest’espressione perché si trova nel primo versetto della lettura di oggi (Is 42,1). Dio dichiara che è Gesù il servo di cui ha parlato il profeta, è lui l’inviato a “instaurare il diritto e la giustizia” nel mondo. Per portare a compimento questa missione offrirà la vita.

La voce dal cielo ribalta il giudizio pronunciato dagli uomini e smentisce le attese messianiche del popolo d’Israele che non concepiva che il messia potesse essere umiliato, sconfitto, giustiziato. Il modo con cui Dio ha adempiuto le sue promesse ha costituito per tutti, anche per il Battista, una sorpresa.


AUTORE: p. Fernando ArmelliniFONTE: Settimana News

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