Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 1 Novembre 2020.
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Devoti e religiosi, ma lontani da Dio
Al tempo di Gesù erano molte le sette giudaiche; alcune sono menzionate anche nei vangeli: i sadducei, gli erodiani, i farisei, gli esseni, gli zeloti… Sono scomparse tutte, tranne quella dei farisei che è sopravvissuta alla distruzione del tempio di Gerusalemme e alla catastrofe del 70 d.C. Senza i farisei, Israele non esisterebbe più.
Quando sentiamo parlare di loro, immediatamente ci risuona nell’orecchio l’invettiva di Gesù: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti”. Ma davvero i membri di questa setta erano un ricettacolo di mali e scelleratezze? Il popolo li venerava per la loro conoscenza delle sacre Scritture e per la loro austerità ascetica, erano ritenuti maestri legittimi, guide illuminate e, senza il loro appoggio, non era possibile conquistarsi la simpatia e il consenso della gente.
Fedeli a Dio e rispettosi di tutte le leggi morali, che osservavano con scrupolo e in modo irreprensibile, avrebbero dovuto essere il gruppo religioso più vicino a Gesù, invece divennero i suoi più accaniti avversari. Come mai?
Alcuni di loro – molti forse – fin dai primi anni della chiesa, si sono convertiti (At 15, 5), ma, entrando nella comunità cristiana, hanno portato con sé la mentalità legalista, il formalismo religioso, il rigorismo morale, la convinzione di poter ottenere la salvezza con le proprie opere buone e, soprattutto, un’immagine di Dio severo e giudice rigoroso, incompatibile con il Dio predicato da Gesù.
Non sono scomparsi i farisei, non scompariranno mai, perché “un fariseo” si cela in ogni discepolo e, quando riemerge, diffonde il suo lievito di morte, un lievito contro il quale bisogna stare in guardia (Mt 16,6).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Il fariseo è devoto, religioso, irreprensibile, eppure, paradossalmente, allontana da Dio”.
Prima Lettura (Mal 1,14b-2,2b.8-10)
14 Io sono un re grande, dice il Signore degli eserciti, e il mio nome è terribile fra le nazioni.
2,1 Ora a voi questo monito, o sacerdoti. 2 Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dar gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni.
8 Voi invece vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete rotto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti.
9 Perciò anch’io vi ho reso spregevoli e abbietti davanti a tutto il popolo, perché non avete osservato le mie disposizioni e avete usato parzialità riguardo alla legge.
10 Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri?
L’autore del libro di Malachia vive in un tempo di decadenza religiosa.
Tornati da Babilonia, gli israeliti si sono impegnati, anche se piuttosto di malavoglia, a ricostruire il tempio, ma poi, a causa delle gravi difficoltà in cui si sono imbattuti, sono stati colti dallo scoraggiamento; perdono la fiducia in Dio, trascurano la preghiera, cadono nell’apatia religiosa. La conseguenza è il declino della vita morale: in tutti gli ambienti regna la corruzione, si commettono ingiustizie, si moltiplicano i divorzi, si sfruttano gli operai. Molti si rassegnano, ma un profeta anonimo – poi chiamato Malachia, che significa “angelo del Signore” – interviene per porre rimedio alla deplorevole situazione. Identifica anzitutto i responsabili: sono i sacerdoti del tempio, colpevoli di gravi misfatti.
La requisitoria del profeta comincia con la denuncia della loro infedeltà nello svolgimento della funzione cultuale.
Hanno offerto al Signore animali ciechi, agnelli zoppi, capretti malati, bestie rubate (Mal 1,8-14). È vero che, a differenza degli idoli pagani, il Dio d’Israele non ha mai chiesto sacrifici e olocausti. Per bocca del salmista ha detto: “Non prenderò giovenchi dalla tua casa, né capri dai tuoi recinti. Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene” (Sal 50,9-12).
Tuttavia anche i regali inutili (ne facciamo tanti) esprimono sentimenti e affetti e, se vengono fatti, devono essere scelti con cura.
Offrendo vittime difettose, storpie e deformi, i sacerdoti miravano al guadagno, giocavano al risparmio e traevano vantaggi sulle elargizioni dei fedeli; ma così ingeneravano nel popolo l’idea che Dio fosse insignificante, meschino e che ci si potesse prendere gioco di lui.
La lettura inizia con un solenne intervento del Signore che si autopresenta in tutta la sua maestà: “Io sono un re grande e il mio nome è terribile fra le nazioni” (Ml 1,14). È l’immagine della considerazione che l’uomo deve avere per Dio, se non vuole ripiegarsi su se stesso e sulle proprie meschinità.
La punizione che attende i sacerdoti per aver dato al popolo un’immagine così deformata di Dio è severa: verrà loro tolta la più dolce, forse la più apprezzata delle loro funzioni, quella di essere mediatori delle benedizioni del Signore. Le loro benedizioni non solo saranno rese inefficaci, ma si tramuteranno in maledizioni (v. 2).
Nella seconda parte della lettura (vv. 8-10) i sacerdoti vengono accusati di una colpa ancora maggiore. “Le labbra del sacerdote – ha detto Malachia – devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione” (v. 7), ma essi, invece di indicare al popolo, com’era loro dovere, il cammino della vita, si sono allontanati dalla retta via e, con il loro insegnamento, hanno fatto deviare chi si era fidato di loro.
Per proteggere la gente semplice da questo inganno, Dio interviene, smaschera la loro ipocrisia e promette: vi renderò “spregevoli e abbietti davanti a tutto il popolo”, farò in modo che nessuno vi stimi, che nessuno più vi rispetti.
Seconda Lettura (1 Ts 2,7b-9.13)
7 Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. 8 Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
9 Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio.
13 Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete.
In questi pochi versetti Paolo delinea il suo comportamento come messaggero del vangelo.
La prima caratteristica del suo apostolato è tratteggiata con un’immagine commovente: per voi tessalonicesi – dice – ho avuto le premure di una madre (v. 7), con voi non ho mai assunto atteggiamenti duri o arroganti, sono sempre stato pieno di dolcezza e sarei stato disposto addirittura a donarvi la mia stessa vita (v. 8).
Il secondo elemento che qualifica l’azione apostolica di Paolo è il disinteresse. Con giustificata fierezza, egli ricorda di aver predicato gratuitamente il vangelo: “Lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunciato il vangelo” (v. 9).
I versetti seguenti non sono riportati nella lettura di oggi (e spiace perché mettono in luce un aspetto spesso misconosciuto della personalità di Paolo: la sua tenerezza d’animo). Dopo aver ricordato ai tessalonicesi di essersi comportato con loro come una madre, dice di essere stato anche un padre: “Come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (vv. 11-12). Le madri nutrono i figli – e Paolo ha nutrito i tessalonicesi con l’alimento della parola di Dio – i padri educano e Paolo li ha istruiti con il suo esempio, non si è limitato ad esortarli con parole, ha anche praticato per primo ciò che insegnava. Senza timore di essere smentito, può quindi affermare: “Voi siete testimoni, e Dio stesso è testimone, come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento” (v. 10).
Come hanno risposto i tessalonicesi alle sue premure? Ce lo rivela l’ultimo versetto della lettura: “Avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio” (v. 13).
In questa affermazione sono riassunte le tre tappe del cammino che conduce alla fede: c’è anzitutto l’annuncio della parola di Dio, che non viene comunicata da angeli o mediante visioni, ma attraverso messaggeri umani, come Paolo. Poi c’è l’ascolto e infine l’adesione a questa parola che, benché trasmessa da uomini, è realmente parola di Dio. L’Apostolo non fa che applicare a sé il detto di Gesù: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato” (Lc 10,16).
Il brano offre parecchi spunti di riflessione a coloro che svolgono il ministero della Parola (gli apostoli, i profeti, gli evangelisti, i pastori e i maestri; Ef 5,11). A loro si chiede di servire sempre la comunità con l’affetto, la dolcezza, l’amore di una madre; di essere modelli di vita, di comportarsi in modo esemplare, come padri; di prestare il loro servizio in modo disinteressato, senza ricercare alcun vantaggio materiale.
Vangelo (Mt 23,1-12)
1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6 amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.
8 Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.
11 Il più grande tra voi sia vostro servo; 12 chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».
Se leggiamo tutto il capitolo dal quale è tratto questo brano, non possiamo non rimanere sconcertati di fronte al linguaggio duro impiegato da Gesù. Come un lugubre ritornello ritorna sulle sue labbra, per sette volte, l’invettiva: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti”. Non siamo abituati a sentirlo apostrofare la gente in questo modo e abbiamo anche l’impressione che le sue minacce siano eccessive. Non pare che agli scribi e ai farisei si potessero imputare tutti i misfatti che vengono loro attribuiti. Erano orgogliosi e fieri della loro rettitudine, ostentata davanti a tutti, ma è difficile riconoscerli nella descrizione polemica che di loro fa Matteo. Paolo, educato secondo la spiritualità di questa scuola, si vantava di essere stato “fariseo quanto alla legge, irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dalla legge” (Fil 3,4-6); “Come fariseo – dichiarava – sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione” (At 26,5) e ai romani scriveva: “Rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio” (Rm 10,2).
Infine, quand’anche fosse esatta la presentazione che di loro viene fatta, ci chiediamo quale senso abbia riproporre oggi alla meditazione dei cristiani il lungo elenco di accuse contro i farisei di duemila anni fa.
È importante rendersi conto del genere letterario di questa pagina, se non si vuole perderne il messaggio che non è rivolto ai giudei del tempo di Gesù, ma alle comunità cristiane di oggi. Le parole del Maestro sono dure perché il pericolo denunciato è grave. Il “fariseo” è un personaggio tipico: rappresenta un modo di pensare, di giudicare, di comportarsi opposto a quello evangelico; i ragionamenti e le convinzioni dei farisei si infiltrano in modo subdolo fra i discepoli e vengono facilmente assimilati.
Per accostarci correttamente al testo, verifichiamo anzitutto a chi Gesù si rivolge, a chi dirige i suoi sette, terribili “guai”. La risposta sembra scontata: i destinatari sono gli scribi e i farisei del suo tempo. Invece non è così. Dal primo versetto del capitolo risulta chiaro che Gesù sta parlando “alla folla e ai suoi discepoli”; sono questi che corrono il rischio di comportarsi da “farisei”. Siamo noi oggi ad essere chiamati in causa dai suoi rimproveri.
Il brano che ci viene proposto oggi non include la parte più dura del discorso, quella dei sette “Guai a voi” che espongono, in un drammatico crescendo, le contraddizioni del comportamento farisaico: da quella di chiudere il regno dei cieli davanti agli uomini, di non entrarvi e di impedire agli altri di accedervi, fino a quella di uccidere i profeti (vv. 13-32). Tuttavia bastano questi pochi versetti per individuare alcuni aspetti caratteristici del fariseismo e per verificare, come in uno specchio, se, dove e come il fariseismo si ripresenta nelle nostre comunità.
È fariseo, anzitutto, chi occupa una cattedra non sua (v. 2).
Nella sinagoga di Corozaim è stato trovato un seggio di basalto che, a quanto pare, serviva allo scriba incaricato di spiegare le Scritture. In ogni sinagoga ce n’era uno simile ed era chiamato “cattedra di Mosè”, perché si riteneva che, per bocca del rabbino che ivi stava seduto, lo stesso Mosè insegnasse la legge al popolo.
Gesù si serve dell’immagine di questa cattedra per delineare la prima caratteristica negativa degli appartenenti alla setta dei farisei: l’abuso d’autorità.
Nel libro del Deuteronomio si afferma che i successori di Mosè – gli incaricati di trasmettere al popolo la parola di Dio – sono i profeti (Dt 18,15.18). Ma quando, negli ultimi secoli prima di Cristo, i profeti scomparvero, il loro posto fu subito e abusivamente occupato dagli scribi. Così dalla profezia si passò alle prescrizioni e alle disposizioni dei rabbini, fatte passare come “parola e volontà di Dio”.
Chi oggi riduce il rapporto con il Signore all’osservanza di norme e precetti, chi sostituisce la profezia con i codici di leggi, chi predica un giuridismo che soffoca la spontaneità e toglie la gioia di sentirsi sempre e comunque amati e accolti da Dio sta perpetuando la spiritualità farisaica.
Il v. 3 sorprende perché sembra parlare in modo positivo dell’autorità morale dei farisei che, nel resto del vangelo, sono invece criticati in modo sistematico: “Guardatevi dalla dottrina dei farisei!”, raccomanda Gesù ai discepoli (Mt 16,12). Qui, dunque, non può esortare ad assimilare il loro insegnamento. Il versetto va inteso in senso ironico, come dire: “Seguite, seguite pure le loro chiacchiere vuote e dissennate e presto vi renderete conto come vi allontanino da Dio”.
Viene così evidenziata la seconda caratteristica del fariseo, l’incoerenza. Fariseo è chiunque dice e non fa, si presenta come persona devota, pronuncia bei discorsi sull’amore, sulla pace, sul rispetto degli altri, ma evita abilmente di lasciarsi coinvolgere da queste affermazioni di principio.
Sono opportuni i documenti ben articolati e le solenni dichiarazioni, ma bisogna anche essere vigilanti per non cadere negli errori che in essi vengono denunciati. Sono nobili le richieste di perdono per i crimini del passato, ma si deve anche prendere coscienza che, da quelle stesse radici, attingono linfa e vigore i mali e i comportamenti riprovevoli di oggi.
La terza caratteristica dei farisei è quella di caricare pesi insopportabili sulle spalle della gente (v. 4). Commettono un errore dalle conseguenze devastanti: riducono la fede e l’amore di Dio alla pratica della religione; predicano la fedeltà a precetti, osservati i quali – dicono – ci si può tranquillamente sentire a posto e in pace con il Signore. Ma così si getta l’uomo in un circolo angosciante: leggi, inevitabili trasgressioni, riti purificatori, poi nuove leggi, sempre più minuziose e dettagliate, interpretate in modo rigoroso con il risultato di togliere il respiro, di rendere la vita impossibile, di provocare ansie invece di condurre alla pace interiore. Nasce la religione giudaica rappresentata dalle giare di pietra vuote, è la festa di nozze senza vino, priva di gioia perché manca lo slancio amoroso, libero e fiducioso verso Dio (Gv 2,1-11).
Gli scribi che hanno imposto queste leggi non muovono poi nemmeno un dito per aiutare il popolo, schiacciato dal peso di tali precetti. “Non vogliono muoverli neppure con un dito”, non considerano le circostanze concrete, non suggeriscono interpretazioni meno rigide, non invitano a cercare l’essenziale (v. 4). Gesù si commuove di fronte a questa situazione e interviene per liberare la gente da un carico divenuto insopportabile: “Venite a me – dice – voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt 11,28-30). È l’invito a prendere su di sé un unico giogo, dolce e leggero, quello dell’amore. Anche Paolo lo raccomanda: “Non sentitevi legati da nessun altro dovere, se non quello dell’amore vicendevole” (Rm 13,8).
Chi oggi tenta di imporre agli uomini “carichi assurdi e insopportabili”, chi detta arbitrariamente norme, chi si preoccupa di minuzie cui Gesù non ha mai accennato, chi filtra il moscerino e ingoia il cammello (Mt 23,24) si comporta da fariseo.
La quarta caratteristica dei farisei è l’esibizionismo (vv. 5-7), la smania di mettersi in mostra. Questo vizio era profondamente radicato, per questo Gesù lo denuncia spesso: “Come potete credere – dice un giorno – voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,44) e chiama ipocriti coloro che praticano le opere buone davanti agli uomini per essere ammirati, coloro che pregano stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere notati, coloro che digiunano con aria malinconica, affinché tutti si accorgano che si stanno mortificando (Mt 6,1.5.16).
Nel brano di oggi vengono descritti altri trucchi con cui i farisei tentano di ottenere riconoscimenti, i posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe: allargano le strisce e le frange dei vestiti usate durante la preghiera.
Oggi il desiderio di attirare gli sguardi della gente, la pretesa di avere le telecamere puntate su di sé non sono scomparsi. Si pretende che venga sottolineato e pubblicizzato il bene che si fa e ci si indispettisce quando questo non avviene. Possiamo tranquillamente affermare che non tutti i cristiani compiono le opere buone sperando che nessuno ne parli, facendo il possibile affinché “la sinistra non sappia ciò che fa la destra” (Mt 6,3).
Nell’ultima parte del vangelo di oggi (vv. 8-12) viene tratteggiata l’immagine dell’autentica comunità cristiana, quella in cui ogni forma di superiorità e di disuguaglianza è stata eliminata. È l’opposto della società, sia civile che religiosa, in cui vengono riconosciute e approvate le classi, le discriminazioni, le distinzioni fra superiori e sudditi.
Ci sono argomenti che noi riteniamo importanti e ai quali Gesù, invece, ha dato scarso rilievo, ma sulla questione dei primi posti, dei titoli onorifici, degli inchini, dei baciamani, delle adulazioni è stato di una chiarezza, di una radicalità e di una insistenza tali da rendere evidente che il tema gli stava a cuore, costituiva una parte centrale del suo messaggio.
Sorse fra i discepoli, durante l’ultima cena, la discussione su chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Voi però non così! Ma il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Lc 22,24-26).
È il capovolgimento dei criteri di questo mondo. Gesù è tanto preoccupato che questi criteri possano riemergere o che vengano recuperati nella comunità cristiana che proibisce in modo esplicito perfino l’uso, apparentemente innocuo, dei titoli onorifici. Ne ricorda tre, quelli usati al suo tempo per le persone onorate e rispettate: rabbi (che significa “mio grande”), padre (che vuol dire “modello di vita e di comportamento”) e maestro (cioè “guida spirituale”).
Inutile escogitare interpretazioni riduttive e concilianti o ricorrere a sottili disquisizioni, per tentare di giustificarli. Gesù si è espresso in modo inequivocabile; le sue parole sono fra le più chiare e forse anche fra le più disattese. Oggi egli non sarebbe meno rigido su questo punto, era troppo allergico al “fariseismo” e non tollerava che, fra i suoi discepoli, si infiltrasse anche solo l’apparenza di tale comportamento.
Nella comunità cristiana gli unici titoli benedetti sono: fratello, sorella, discepolo, servo e quelli che indicano un ministero, un servizio; gli altri vanno banditi e dovrebbero suscitare disagio non solo in chi li rivolge, ma anche in chi li riceve. Non è casuale il fatto che nei padri apostolici (quindi fin verso la metà del II secolo d.C.), il termine “padre” sia stato riservato a Dio ed è significativo che, alla fine del IV secolo d.C., Gerolamo osservi ancora: “Il Signore ha ammonito di non chiamare nessuno padre, se non Dio solo. Non capisco quindi chi abbia autorizzato i superiori dei monasteri ad essere chiamati “Abbà” o come noi possiamo permettere a qualcuno di chiamarci in questo modo”.
Le ultime parole del vangelo di oggi ripropongono in sintesi tutto il messaggio esposto: “Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato” (v. 11).
AUTORE: p. Fernando Armellini
FONTE: Settimana News
SITO WEB: http://www.settimananews.it