Avvento, tempo di un Dio che si fida
Se tu squarciassi i cieli e discendessi! (Isaia 63,19). Il profeta apre l’avvento come un maestro dell’attesa: i cieli sono un grembo che sta per partorire vita più grande. Noi siamo argilla nelle tue mani. Tu sei colui che ci dà forma (Isaia 64,7). Siamo argilla che il Vasaio non butta via mai, e se questo vaso riesce male, o qualche volta si rompe, ci prende di nuovo in mano, ci mette ancora su quel suo tornio, che ruota sempre come una mistica danza di creazione.
Illogica e magnifica fiducia in noi, che siamo i vasi rotti di Dio. Fiducia che ho tante volte tradito, ogni volta rinata. Il profeta è testimone ancora una volta che è sempre possibile rinascere, è sempre possibile il passaggio da «terra ferita» a «terra guarita».
La voce di Isaia grida il desiderio del cosmo: tutto nell’universo attende, attendono anche le pietre, anche il grano attende un Dio che ha sempre da nascere. Un germe divino attende la sua risurrezione nel cuore umano (Giovanni Vannucci).
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Avvento è un tempo di incamminati: tutto si fa più vicino, Dio in esodo verso di noi, io che mi accodo a questa carovana di nomadi cercatori di stelle, la terra che si fa prossima e cerca pace. Pace in terra, canteranno gli angeli, affascinando la notte di Betlemme.
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Altro commento di fra Ermes
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IL VESTITO DELL’ATTESA
Un tempo in cui si abbreviano le distanze tra cielo e terra, e si avviano percorsi. Anche se sembra che ci manchi qualcosa, alla fine ci accorgiamo che ci manca Qualcuno, e l’attesa si veste di Presenza.
L’Avvento è un orizzonte che si allarga, una porta che si apre, una breccia nelle mura, un buco nella rete, una fessura nel soffitto, una manciata di luce che la liturgia ci getta in faccia. Non per abbagliarci, ma per svegliarci. Per aiutarci a spingere verso l’alto, con tutte le forze, ogni cielo nero che incontriamo. «Al di là della notte ci aspetterà spero il sapore di un nuovo azzurro» (N. Hikmet).
L’ingresso del vangelo di Marco, oggi, racconta di una notte, e ne stende l’elenco faticoso delle tappe: “non sapete quando arriverà, se alla sera, a mezzanotte, al canto del gallo o al mattino”. Una sola cosa è certa: arriverà.
Ma intanto Isaia lotta, a nome nostro, contro il ritardo di Dio: ritorna per amore dei tuoi servi! Se tu squarciassi i cieli e discendessi!
Un padrone se ne va e lascia tutto in mano ai servi, a ciascuno un compito. Una costante di molte parabole, una storia che Gesù racconta spesso, narrando un Dio che mette il mondo nelle nostre mani, che affida tutto all’intelligenza fedele e alla tenerezza combattiva dell’uomo.
Dio si fa da parte, si fida dell’uomo, gli affida il mondo come ogni padre saggio e maturo che si rispetti. L’uomo, da parte sua, è investito di un’enorme responsabilità: “uomo finalmente promosso a uomo” (P. Mazzolari). Non possiamo più delegare a Dio niente, perché Dio ha delegato tutto a noi.
Ma un doppio rischio ci preme addosso. Il primo, dice Isaia, è quello del cuore duro: perché lasci indurire il nostro cuore lontano da te? (Is 63,17). La durezza del cuore è la malattia che Gesù più teme, la “cardiosclerosi” che combatte nei farisei, che intende con tutto se stesso curare e guarire. Che san Massimo il Confessore converte così «solo chi ha il cuore dolce sarà perdonato».
Il secondo rischio è una vita assopita: che l’atteso non giunga “trovandovi addormentati”. Il Vangelo ci consegna una vocazione al risveglio, perché «senza risveglio, non si può sognare» (R. Benigni).
Rischio quotidiano è una vita dormiente, incapace di cogliere arrivi ed inizi, albe e sorgenti; incapace di cogliere l’esistenza già qui in mezzo a noi, come una madre in attesa già intravede suo figlio, quando invece il cristiano è il contrario di chi non si aspetta più niente dalla vita, l’opposto di chi non volge più il cuore a nessuno.
Attesa e attenzione, i due nomi dell’Avvento, hanno al medesima radice: tendere a, rivolgere mente e cuore a qualcosa che manca e che si fa vicino. Ed è un tempo da incamminati: tutto si fa prossimo, Dio a noi, noi agli altri, io a me stesso. Tempo in cui si abbreviano le distanze tra cielo e terra, tra uomo e uomo, e si avviano percorsi. Anche se sembra che ci manchi qualcosa, alla fine ci accorgiamo che ci manca Qualcuno, e l’attesa si veste di presenza.
E allora comprendiamo che il nome ultimo di questo tempo è “speranza”, cioè un’attesa che diventa Presenza.