p. Ermes Ronchi – Commento al Vangelo di domenica 25 Aprile 2021

Il Dio-pastore dona la vita anche a chi gliela toglie

Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 25 Aprile 2021.

Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta: “Io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende “buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l’unico, che mette sul piatto la sua vita.

Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita.

Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata. […]

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Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, mani impigliate nel folto della vita e che non scagliano pietre, mai. Da quelle mani di pastore nessuno mai mi rapirà.

L’ULIVO, NIDO DELLA QUERCIA

Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante.
Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo, ma voi valete di più.
Mi importano i gigli del campo, ma tu vali molto di più.
Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti nel cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, turbati per il suo silenzio.
Con la formula solenne delle rivelazioni, oggi Gesù afferma: Io sono il buon pastore, e per farcene capire il senso, per cinque volte ripete il verbo offrire.
Ciò che il pastore offre è la vita, e non so immaginare migliore avventura: io sono vaso che accoglie vita, sono anfora che vuole riceverne sempre più.
Sono il pastore ‘bello’, specifica il testo greco, e la bellezza, il fascino del pastore sta nella sua passione per il fiorire della vita in tutte le sue
forme.

Io do la vita: non significa per prima cosa vado a morire, perché se il pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo vince, seminando
disperazione e morte. Dare la vita qui è inteso nel senso che hanno ben compreso gli apostoli: della vite che dà linfa al tralcio (Giovanni); dell’ulivo innestato che trasmette potenza buona al ramo selvatico (Paolo); di uno che essendo l’autore della vita (Pietro) l’ha inventata e la scrive, sillaba per sillaba, sulle tavole di carne che siamo noi.
Io offro la mia vita significa: vi offro un’ energia di nascita dall’alto;offro germi di divinità, per farvi simili a me ( II lettura).

Un Dio compreso nel pastore che si impegna per le pecore; nella donna cheoffre il seno al piccolo; nell’acqua che dà vita alla steppa arida, nel padre che si strugge nell’attesa del figlio lontano. In un germoglio di quercia che miracolosamente trova casa nel grembo di un vecchio ulivo.

Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, mani impigliate nel folto della vita, mani forti contro i lupi, mani che proteggono la fiammella smorta, mani sugli occhi del cieco, mani che scrivono nella polvere e non scagliano pietre, mai, mani trafitte offerte a Tommaso.
Da quelle mani di pastore nessuno mi rapirà mai.

Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. Il Dio dei cristiani non sta bene nei cieli, discende e si compromette. Il cristiano non può star bene finché non sta bene suo fratello.
E tutti, a nostra volta pastori di un minimo gregge, ripetiamo le parole di Gesù, ma in silenzio e con coraggio: tu mi importi, tu incontro d’oggi o compagno di una vita, tu sei importante per me. Ciascuno di noi può essere pastore forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è affidato: la famiglia, gli amici, compagni di strada che contano su di noi e di noi si fidano.
Ho imparato che per stare bene l’uomo deve dare, perché così fa Dio.
“Dare vita”; significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicino.
Significa trasmettere gesti e parole che ardono e fanno vivere, accensioni
del cuore che rendono più bella la fede, più affettuosa la vita.

AUTORE: p. Ermes Ronchi FONTE: Avvenire PAGINA FACEBOOK

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