p. Ermes Ronchi – Commento al Vangelo di domenica 23 Ottobre 2022

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Pregare è dare del “tu” a Dio e dimenticare se stessi

Il fariseo inizia bene la sua preghiera: “O Dio, ti ringrazio”, sono le parole giuste. Ma poi sbaglia tutto quando ne spiega la ragione: perché non sono come gli altri… tutti imbroglioni, ladri, falsi, disonesti. “Io sono molto meglio degli altri”.

Non si può lodare Dio e disprezzare i suoi figli. Ed ecco la preghiera da sbagliata diventa insensata: tutto prende a ruotare attorno a due lettere magiche, anzi stregate: io, io, io: “io sono, io digiuno, io pago”. Il fariseo adora il proprio io, non riesce a pronunciare la parola più importante del cosmo è: “Tu”.

Pregare è dare del tu a Dio.

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Ringraziando perché il centro della fede non è mai ciò che io faccio o non faccio per Dio, ma ciò che Lui fa per me. A ben guardare, quello che il fariseo adora non sono altro le norme della legge. Il dio a cui presta il suo culto è la regola.

In realtà, i precetti della legge, dicono i rabbini, sono come la siepe che costeggia la strada, servono per non sbagliare strada, per non perdere la direzione, ma Dio non è la siepe: Lui è in fondo alla strada come un mondo che si apre, un abbraccio caldo, un oceano creativo, onda di luce e di pace.

Gioia di vivere, terra e cieli nuovi. […] Continua a leggere tutto il testo di questo commento su Avvenire

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LO SPECCHIO MUTO

Dal fondo del tempio il pubblicano vola verso un Dio più grande del suo peccato, che non si merita ma si accoglie.

Due uomini vanno al tempio a pregare. Uno ritto in piedi prega, ma è come se fosse rivolto a se stesso: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, impuri…».

Inizia con parole corrette; l’avvio è biblico, infatti metà dei Salmi sono di lode e ringraziamento. Ma mentre offre le sue parole a Dio, il fariseo in realtà le rivolge a sè, compiacendosi.

Parabola per coloro che si sentono buoni, che vedono degli altri solo i difetti. Il fariseo vive pieno di sospetti e paure, vita triste in un mondo dedito all’imbroglio, al sesso, alla rapina. Come tutti i fondamentalisti, è un angosciato che si vede attorno solo degrado e rovina. Dal suo sguardo duro nasce una preghiera insensata e fredda. Davvero «solo chi ha lo sguardo dolce sarà perdonato» (G. Palamas).

Per l’anima bella del fariseo, Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva. Un muto specchio su cui far rimbalzare la propria arroganza spirituale. Io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Io sono molto meglio.

Offende il mondo nel mentre stesso che crede di pregare.

Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire, dire male dei suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli.

In fondo lui è un infelice che sta male al mon­do, che per elevarsi deve necessariamente abbassare gli altri, restando solo: l’immoralità dilaga, la di­sonestà trionfa… L’unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.

La parabola ci mostra la grammatica della preghiera, le cui regole sono semplici e valgono per tutti, come le regole della vita: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con i figli o con gli amici, tantomeno con Dio.  Si prega non per ricevere ma per essere trasformati, ma questo fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno; lui è a posto, sono gli altri ad essere sbagliati, e forse un po’ anche Dio. 

Il pubblicano, peccatore consapevole, prega: Signore, abbi pietà di me. Mette al centro del suo grido non se stesso ma la pietà di Dio, non l’io ma il «Tu». Come nel Padre Nostro, dove mai si dice «io», mai «mio», ma sempre «tuo» e «nostro»: Padre, tu nei cieli, il nome tuo, il regno tuo, tu donaci, tu liberaci.

Il pubblicano non è perdonato perché migliore del fariseo, il solo pensarlo è credere di meritarsi Dio, ma perché nel suo vivere leggero, accettando i propri limiti, egli si apre come una porta socchiusa al sole.

Dal fondo del tempio egli vola verso un Dio più grande del suo peccato, che non si merita ma si accoglie; verso un Altro che viene e trasfor­ma nella sua misericordia infinita, nella sua straordinaria debolezza che è anche la sua unica, miracolosa, onnipotenza.

AUTORE: p. Ermes Ronchi FONTE: Avvenire e PAGINA FACEBOOK