Più che pulite Dio chiede mani colme di vendemmia
Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 2 Maggio 2021.
Gesù ci comunica Dio attraverso lo specchio delle creature più semplici: Cristo vite, io tralcio, io e lui la stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa.
E poi la meravigliosa metafora del Dio contadino, un vignaiolo profumato di sole e di terra, che si prende cura di me e adopera tutta la sua intelligenza perché io porti molto frutto; che non impugna lo scettro dall’alto del trono ma la vanga e guarda il mondo piegato su di me, ad altezza di gemma, di tralcio, di grappolo, con occhi belli di speranza.
Fra tutti i campi, la vigna era il campo preferito di mio padre, quello in cui investiva più tempo e passione, perfino poesia. E credo sia così per tutti i contadini. Narrare di vigne è allora svelare un amore di preferenza da parte del nostro Dio contadino. Tu, io, noi siamo il campo preferito di Dio. La metafora della vite cresce verso un vertice già anticipato nelle parole: io sono la vite, voi i tralci (v.5). Siamo davanti ad una affermazione inedita, mai udita prima nelle Scritture: le creature (i tralci) sono parte del Creatore (la vite).
Cosa è venuto a portare Gesù nel mondo? Forse una morale più nobile oppure il perdono dei peccati? Troppo poco; è venuto a portare molto di più, a portare se stesso, la sua vita in noi, il cromosoma divino dentro il nostro DNA. Il grande vasaio che plasmava Adamo con la polvere del suolo si è fatto argilla di questo suolo, linfa di questo grappolo.
E se il tralcio per vivere deve rimanere innestato alla vite, succede che anche la vite vive dei propri tralci, senza di essi non c’è frutto, né scopo, né storia. Senza i suoi figli, Dio sarebbe padre di nessuno. […]
Continua a leggere tutto il testo del commento su Avvenire
Facciamo parte della stessa pianta come le scintille nel fuoco, come la goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria, come i colori che si tuffano l’uno nell’altro.
L’UN L’ALTRO
Vangelo che ruota attorno ad una immagine concreta e ad un’azione: la vite, i tralci e il verbo «rimanere». Rimanete in me. Alla sola condizione, non condizionamento ma base dell’esistenza, di nutrirvi della mia linfa.
Non sono parole astratte, sono quelle dette anche dall’amore umano. Rimanere insieme, nonostante tutte le distanze, i lunghi inverni, le forze che ci trascinano via.
La bibbia è un libro pieno di viti e di uomini di cui Dio si prende cura, e dai quali riceve un vino di gioia. Per ogni contadino la vigna è il preferito tra i campi: noi siamo la piantagione prediletta di Dio. Ma mentre nell’Antico Testamento Dio era il padrone della vigna, custode buono e operoso, ma altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù introduce una grande novità: io sono la vite, voi i tralci.
Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come la goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria, come i colori che si tuffano l’uno nell’altro e amandosi si fondono, senza gerarchie.
Con l’Incarnazione di Gesù, il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio argilla, il Creatore creatura.
Dio è in me, non come padrone, ma come linfa; Dio è in me, non come voce da fuori, ma come segreto della vita. Dio è in me, per meglio prendersi cura di me.
Questa è la stagione in cui profumano i fiori della vite; ieri il vignaiolo attendeva che la linfa, salita misteriosamente lungo il ceppo, si
affacciasse alla ferita del tralcio potato, come una lacrima. Allora mio padre contadino diceva: è la vite che va in amore.
C’è un amore che sale dalla radice del mondo, ad un misterioso segnale di terra, di sole, di vento, e in alto apre la corteccia che sembrava secca e morta, e la incide di fiori e di foglie.
Quella linfa, goccia d’amore che trema sulla punta del tralcio, è il visibile parlare di Dio. Così l’amore percorre il mondo, sale lungo i ceppi delle vigne, risale la mia vita, lo sento: la mia linfa viene da prima di me e va oltre me; viene da Dio e va in frutti d’amore; e dice a me, piccolo tralcio: ho bisogno di te, per una vendemmia di sole e di miele. Per la dolcezza dell’uomo e di Dio.
Il Dio contadino è mio padre, si dà da fare attorno a me, per stagioni e stagioni; non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.
Non posso avere paura di un Dio così, che lavora la mia terra con tutto il suo impegno, che mi sta addosso, mi cura, mi nutre, mi pota perché io possa fiorire sotto il suo sole e produrre un frutto di bontà e di festa, sola perfezione dell’uomo secondo il vangelo.
Non puoi temere un Dio così, puoi solo sorridergli.
AUTORE: p. Ermes Ronchi FONTE: Avvenire PAGINA FACEBOOK