Credere è una festa Dobbiamo essere pronti
Molti credenti, prigionieri di una religiosità pre evangelica, mettono la chiave di volta del rapporto tra uomo e Dio nel peccato da espiare, e alla base di tutto il peccato originale. Invece il Vangelo a dire e ridire che l’asse portante della fede è il dono, e alla base il dono originale: “Se tu conoscessi il dono di Dio!”. La parabola di oggi lo racconta bene: c’è una festa in città, la più importante delle feste, si sposa il figlio del re.
La religione respira aria di festa, si fonda sul dono. Il racconto si muove attorno a tre immagini: una stanza vuota; la ricerca per le strade; un abito sbagliato. Comincia bene, ma presto sbanda verso la tristezza. La sala vuota certifica un fallimento, come in certe nostre chiese tristi e semivuote, con il pane e vino che nessuno vuole, nessuno cerca, nessuno gusta; con la nostra afasia circa la Parola.
E allora la sorpresa: il rifiuto non revoca il dono. Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, l’inatteso Signore apre incontri altrove. Come ha dato la vigna ad altri contadini, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati. I servi sono mandati con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità.
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“Non chiedete niente, voi invitate”. È bello questo Dio che, rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano, ha tanta gioia da regalare. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dai notabili della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni.
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Altro commento di fra Ermes
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CHIAMATE TUTTI, MA PROPRIO TUTTI!
Tutto il Vangelo è un continuo bussare alla porta della gioia, di cui Gesù possiede la chiave.
Dopo 3 domeniche a faticare nelle vigne, eccoci invitati ad una festa. Una festa dall’esito incerto, drammatica anche per Dio. Il Dio dalla sala vuota, dalle chiese tristi, il Dio del pane e del vino che nessuno vuole, nessuno cerca, nessuno gusta. Eppure Dio invita: non alla fatica della vigna, ma a nozze, al piacere del vivere.
Festa grande, oggi in città: si sposa il figlio del re.
Succede però che gli invitati, persone serie dai piedi per terra, accampano delle scuse: hanno degli impegni da concludere, non hanno tempo per la leggerezza o la superficialità di una festa. Troppo impegnati, non hanno il tempo di vivere. L’idolo della quantità ha chiesto che gli fosse sacrificata la qualità della vita.
Dio organizza la migliore delle feste, ti invita a una vita buona e bella e felice. Tutto il Vangelo è un continuo bussare alla porta della gioia, di cui Gesù possiede la chiave.
Dopo il rifiuto, i servi partono con l’ordine del re, illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. Dio parte dagli ultimi: che entrino prima i cattivi, ne hanno più bisogno, e i buoni a seguire. Ma che siano tutti!
Sala piena, scandalo per il mio cuore fariseo. E quando scende nella calca festosa della sala, vedo Dio entrare nel cuore della vita, come uno cui sta a cuore la mia gioia, e se ne prende cura.
Ed ecco il grande paradosso: tra barboni e mendicanti siede un invitato senza l’abito della festa. Nota stonata e inaccettabile che spinge il re a farlo buttare fuori.
Quell’uomo è l’emblema inconsapevole di quelli che hanno rifiutato l’invito.
Sì. E’ possibile fallire la vita, è possibile non rendersi conto di aver perso ciò che di meglio essa offriva.
Ad ognuno di noi è posta come condizione il vestito di nozze. L’uomo che ne è privo non è peggiore degli altri, buoni e cattivi si confondono nella sala stracolma. Ma lui è isolato, è solo, non può godere la festa perché non porta il suo scampolo di bellezza. Quell’uomo non ha creduto alla festa. Si è sbagliato su Dio! Ha la mentalità di quelli che hanno rifiutato. E’ lì, ma il cuore è assente, è altrove. Sbagliarsi su Dio è un dramma, anche in questi giorni tremendi, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita (David M. Turoldo).
Di cosa è simbolo quell’abito, il migliore che avrebbe dovuto mettere? Di un comportamento senza macchie? No. L’abito nuziale non è quello indossato sulla pelle, è il vestito di un cuore acceso che desidera credere, perché credere è una festa.
Anch’io ho l’abito un po’ rattoppato, un po’ consunto. Ma il cuore, quello no: ha fame e sete, come il tuo. E desidera, come te, che gioia e festa, che pace e perdono brillino ancora in tutte le case, in tutto il mondo.