p. Ermes Ronchi – Commento al Vangelo del giorno, 9 Aprile 2020

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La Parola nel tempo della distanza

 TUTTI, PROPRIO TUTTI

Gv 13
Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.

In questi tempi senza chiese, tempi di liturgie solitarie, riandiamo a quell’ultima cena, e scopriamo che il primo altare del cristianesimo non lo trovi nelle chiese o nelle cappelle, ma nell’umile tavola di casa. E che i grandi altari delle cattedrali sono venuti secoli dopo.

Attorno alla tavola, Gesù raccolse i suoi, in casa d’amici, per una cena che era l’ultima e la prima.

Prendete, mangiate, questo è il mio corpo: prendetene tutti…Tutti. Anche chi sta per tradire, anche chi sta per fuggire. Se solo avete fame. Prendetene tutti, anche voi gente di fughe e abbandoni. Un Dio da mangiare, da nutrirsene, da esserne vivi.

Segno bello e terribile: il pane fa vivere e si annulla, nutre e scompare. A questo Dio umile non ci si abitua mai!

Oggi, in casa, onoriamo il nostro altare domestico, memoria del primo altare, con la tovaglia più bella, un fiore, un pane fragrante. Che ci ricordi che come Gesù anche noi non ce ne possiamo andare da questo mondo senza essere prima diventati un pezzo di pane buono per la fame di qualcuno.

Un sorso di vino buono che dia gioia.

Il pane semplice e ricercato, povero e ricco. Buono con tutto e anche da solo. Nel pane passa tutto il creato: il sole e la pioggia, l’erba dei campi, le api e la mano dell’uomo. La vita di Dio e la mia.

L’altro gesto del giovedì santo è la lavanda dei piedi.

Vi lascio un testo di Madeleine Delbrel:

Se dovessi scegliere una reliquia della tua passione prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca.

Girare il mondo con quel recipiente e ad ogni piede cingermi dell’asciugatoio e curvarmi giù in basso, non alzando mai la testa oltre il polpaccio per non distinguere gli amici dai nemici, e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato, del malato, del carcerato, di chi non mi saluta più, di quel compagno per cui non prego mai, in silenzio, finchè tutti abbiano capito, nel mio, il tuo amore.