Nel racconto della passione che Marco riprende da una antica narrazione a lui precedente Gesù è presentato nel far progressivamente emergere i tratti più autentici della sua vita. “Principio del vangelo di Gesù Cristo figlio di Dio”: così era iniziato il racconto. L’intero vangelo, è ‘bella notizia’ dell’annuncio del regno portato da Gesù.
Ma insieme è anche ‘bella notizia’ di Gesù stesso: Marco lo indica come il messia atteso (‘figlio di Dio’ – titolo del re messia nel Salmo 2,7). Tuttavia nel corso della narrazione quando qualcuno indicava l’identità di Gesù gli veniva imposto di tacere. Marco è ben consapevole dei rischi di un’immagine falsata di Gesù: anche se viene proclamato messia non viene compresa la sua via e tanto meno è seguita. Al cuore del racconto della passione sta la questione del suo autentico volto e della sequela degli autentici discepoli.
Gesù è ritratto da Marco nel momento dell’angoscia, in preda allo sfinimento di fronte al male. Vive una progressiva solitudine anche da parte dei suoi più vicini “Tutti allora abbandonatolo, fuggirono” (14,50). Nell’orto degli ulivi provando paura si affida all’Abbà. Così sta in silenzio di fronte al sommo sacerdote e davanti a Pilato. Secondo la logica umana le vie da perseguire sono quelle della potenza e della violenza; Gesù invece sta inerme davanti al sommo sacerdote e afferma in modo paradossale la pretesa di essere lui il Figlio dell’uomo, figura del giudice degli ultimi tempi (cfr. Dan 7).
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Marco riferisce la debolezza di Gesù, il suo arrendersi nella fatica: non riesce a portare il trave della croce al punto che un certo Simone di Cirene che tornava dai campi fu costretto a portarlo (14,21). E sotto la croce la gente diceva: “ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo” (14,32-33). Gesù è deriso come incapace di dare salvezza.
Il suo volto è quello del messia umiliato e torturato: e non scende dalla croce. Sulla croce si rivolge al Padre con le parole iniziali del salmo 22,2: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, espressione della sua solitudine e dell’abbandono del giusto che soffre. Il salmo 22 si conclude in una invocazione di affidamento a Dio che non abbandona il giusto suo servo. Marco delinea i tratti di un messia che sperimenta la debolezza e attua la sua missione nel fare della sua vita un dono di sé fino alla fine, come colui che affida al Padre la sua causa.
Al momento della morte di Gesù Marco annota due particolari: il centurione pagano indica l’identità di Gesù senza essere messo a tacere: “veramente quest’uomo era figlio di Dio”. E’ un pagano, lontano dalla legge e dalle osservanze, colui che riconosce il volto del messia nel crocifisso ed esprime l’attitudine del discepolo. E’ un messia diverso: non della violenza ma del servizio non della forza ma del dono. Gesù l’aveva indicato nei segni dell’ultima cena: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (14,24).
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La sua morte dal punto di vista storico è l’esito di un complotto dei capi del potere politico e religioso, ma nel modo in cui Gesù la affronta e la vive è fedeltà radicale all’annuncio del regno, e affidamento all’Abbà.
Nel momento della sua morte ‘il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso’. Marco indica un simbolo: si apre il velo. Ogni barriera tra Dio e l’umanità è aperta. Per tutti si rende possibile scorgere nel condannato della croce il volto del Figlio amato (cfr Mc 1,11; 9,7). La morte di Gesù manifesta il volto di un messia che apre ad un rapporto nuovo con Dio. Gesù si rende solidale con tutti i crocifissi della storia e indica nei volti di chi soffre e di chi è oppresso il luogo in cui incontrare Dio stesso.
Per gentile concessione di p. Alessandro – dal suo blog.
p. Alessandro Cortesi op
Sono un frate domenicano. Docente di teologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘santa Caterina da Siena’ a Firenze. Direttore del Centro Espaces ‘Giorgio La Pira’ a Pistoia.
Socio fondatore Fondazione La Pira – Firenze.