p. Alessandro Cortesi op
Sono un frate domenicano. Docente di teologia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘santa Caterina da Siena’ a Firenze. Direttore del Centro Espaces ‘Giorgio La Pira’ a Pistoia.
Socio fondatore Fondazione La Pira – Firenze.
‘Chi è il mio prossimo?’ una domanda apre un dialogo. Gesù accetta di rispondere ma senza entrare in una questione da intellettuali religiosi.
Il dialogo ci riporta allo stile di Gesù, al suo parlare non per via di definizioni, non per via di precetti da imporre, ma accompagnando a scorgere le nostalgie del cuore, raccontando una vicenda in cui tutti potevano comprendere. Un uomo è attaccato dai briganti, ed è lasciato dolorante e percosso, moribondo sulla strada tra Gerusalemme e Gerico, quella via che discendeva coprendo mille metri di dislivello per 30 Km circa tra la città del tempio e Gerico. Per quella strada passano diverse persone: un sacerdote prima, un levita poi, persone religiose, anzi custodi del sacro. Il primo forse scendeva dopo aver svolto il suo servizio settimanale nel tempio di Gerusalemme; il secondo aveva compiuto la sua mansione di inserviente o di cantore nel tempio. Erano due persone osservanti e religiose. Il sacerdote vide e passò oltre e così pure il levita vide e passò oltre. La ripetizione di questo passare e andare oltre riporta ad un vedere che non si lascia interrogare non solo da quell’uomo, ma dagli innumerevoli volti segnati dalla sofferenza, dalla violenza, dall’emarginazione verso i quali c’è indifferenza. Videro quell’uomo lasciato mezzo morto ma proseguirono. Forse lo videro senza scorgerne un volto, forse preoccupati delle osservanze cultuali. Il racconto non presenta le ragioni del perché non si fermarono: forse perché il contatto con il sangue o con un morto rendeva impuri e impediva di compiere azioni di culto, forse perché l’uomo era uno sconosciuto, per evitare incomodi e per poter continuare il loro cammino senza interruzioni. Un modo di intendere la fede staccata dal sentire il dolore dell’altro, oppure un modo di intendere la vita pesi solo dai propri affari.
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Il samaritano, nemico ed estraneo invece vede e quel vedere lo porta a fermarsi, ad interrompere il suo cammino di fronte a quell’uomo ferito sulla strada. Tre verbi delineano il suo atteggiamento: lo vide, ne ebbe compassione e si fermò. Anch’egli vide ma non passò oltre. Il suo vedere lo porta a scorgere il volto di un uomo nella sofferenza e nel bisogno: il samaritano, a differenza degli altri due apparteneva ad una popolazione vista con sospetto dagli abitanti della Giudea: era considerato eretico, straniero e nemico. Di fronte a quell’uomo che soffriva sulla strada il suo vedere è diverso, si lascia toccare e coinvolgere: riconosce in lui un volto di uomo da soccorrere perché nella sofferenza e nel bisogno. ‘Ne ebbe compassione’: avvertì in lui una sofferenza che lo prese nelle viscere, lo coinvolse come se fosse propria. Il verbo usato ‘avere compassione/essere preso nelle viscere’ è quello nella Bibbia è utilizzato per dire il sentire di Dio che si prende cura di chi soffre e delle vittime. A quel samaritano è attribuito il verbo del soffrire di Dio che sente su di sé le sofferenze dell’altro. E la com-passione si fa movimento di avvicinamento con un progredire di azioni concrete in rapporto a quel ‘lui’ che da sconosciuto diviene vicino. il samaritano scopre di essere prossimo: “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui”. Sono gesti concreti, gesti della cura che hanno al centro la persona. Quell’uomo è per il samaritano un ‘tu’ di cui prendersi cura, così come dice all’albergatore mettendo in atto un movimento più vasto che giunge dove egli stesso non può arrivare: ‘Abbi cura di lui…’.
Nel racconto il samaritano si prende cura dell’altro, riconosce nel sofferente non un nemico, ma un uomo da soccorrere. Il prossimo non è solamente chi appartiene al proprio gruppo, al proprio clan, alla propria confessione religiosa. Nel racconto Gesù mostra che il samaritano non si è chiesto teoricamente ‘chi è il mio prossimo’ ma ha scoperto il volto di chi soffriva. Gesù poi rinvia alla responsabilità personale: ‘chi è stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?’. Capovolge la domanda iniziale del dottore: non è importante domandarsi teoricamente ‘chi è il mio prossimo?’, ma scoprire nella vita imparando a vedere, a fermarsi e a provare compassione: ‘a chi tu sei prossimo?’.
I gesti del prendersi cura sono l’unica parola credibile su Dio. In quei gesti si rende vicino il volto di Dio che chiede a noi di vivere una fraternità nuova.
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Alessandro Cortesi op
Fonte: il sito di don Alessandro Cortesi