Non c’è teologia senza umanità

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Ho visto cose che da piccolo non sarei nemmeno riuscito a immaginare. Ho visto navi al largo di coste italiane bruciare di caldo in attesa di sbarcare naufraghi allo stremo, e raggi di pura cattiveria balenare nel buio, da monitor di silicio, congelando i bastioni delle coscienze.

Vorrei che tutti questi momenti andassero perduti nel tempo, ma non è possibile: non da quando ho visto donne e uomini cattolici – fratelli e sorelle della parentela più stretta – usare la teologia per giustificare tutto questo. Ho letto animatori parrocchiali indicare rotte marittime intercontinentali a comandanti di rompighiaccio, che manco ho idea di quanto possa essere complicata la plancia di una rompighiaccio.

Ho guardato sbigottito giovani preti, dalla barba curata e dal sorriso ammiccante, impartire lezioni di giurisprudenza a professori universitari di diritto internazionale, accusandoli di scarsa umiltà e «pensiero unico». Sono rabbrividito di fronte a sentenze semplicistiche e arroganze impudiche, piangendo ogni volta che scoprivo che l’autore poteva sedere accanto a me la prossima volta che un diacono mi avesse ordinato: «Datevi un segno di pace». Ma quando ho sentito chi fa il mio stesso mestiere – il teologo – argomentare con testi del magistero, financo passi delle Scritture, che ciò che ha fatto un mese fa la comandante della Sea Watch è contro la fede cattolica, eh, no! La tristezza è diventata sdegno.

Con una casalinga sessantenne che invoca la morte di 40 poveracci non saprei proprio da che parte cominciare, se non invitandola a prendere un caffè all’ostello della Caritas e provare ad ascoltarla guardandola negli occhi. Ma di fronte a chi di mestiere fa il teologo – non importa se giornalista o docente, predicatore o catechista – non posso tacere.

Una persona salvata in mare può essere il peggiore degli esseri umani e le si può riservare la peggiore delle punizioni, ma lo si faccia una volta portata a riva. Non prima, o ne andrebbe della nostra umanità. È questione di principi.

Voi lo sapete perché avete studiato: un principio non ha bisogno di giustificazioni a monte, perché sta, appunto, all’inizio e determina il resto. Se ad esempio viene meno un principio di umanità, non si è uomini cattivi, ma si è proprio un’altra cosa: disumani. Il principio per eccellenza del cristianesimo è la compassione di Dio, così vertiginosa (Gv 1) da fargli assumere la nostra condizione, facendosi servo fino alla croce (Fil 2).

I cristiani riconoscono questo amore fino a desiderare di esservi conformati. La teologia è il tentativo – balbettante – di esprimere questo desiderio per cercare di restargli fedeli. Se poggia su un altro principio o serve un altro padrone, la teologia imputridisce in dottrina falsa, venduta, empia, come quella che si balocca di interrogazioni infide («Maestro, secondo la legge questa donna dovrebbe morire, tu che dici?») o che rifugge come improprie le domande decisive («Sono forse io il custode di mio fratello»?).

Si può affermare che il gesto compiuto dalla comandante Rackete sia «carità pelosa» o una «sbruffonata ideologica»? Sì, basta scegliere un principio che non sia la compassione (anzi, demonizzarla proprio). Sappiate però che oggi e qui, per essere fedeli al Vangelo, serve una teologia fatta da «uomini e donne di compassione, toccati dalla vita oppressa di molti, dalle schiavitù di oggi, dalle piaghe sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie subite da tanti poveri che vivono sulle sponde di questo “mare comune”.

Senza comunione e senza compassione, costantemente alimentate dalla preghiera (…) la teologia non solo perde l’anima, ma perde l’intelligenza e la capacità di interpretare cristianamente la realtà» (papa Francesco). Diventa un’altra cosa, inutile e dannosa.

A cura di Marco Ronconi (teologo e insegnante di religione) per la rivista Jesus di agosto 2019.