La liturgia di oggi ha ancora a che fare con la fede, soprattutto da due punti di vista.
Il primo riguarda l’oggetto del credere: chi è colui nel quale abbiamo riposto la nostra fiducia?
Il secondo, attraverso le figure di Elia, di Paolo e dei discepoli, ha a che fare con il nostro stato d’animo interiore. Quali sentimenti accompagnano il nostro credere? Perché la fede non è un blocco monolitico comunque sicuro e fissato una volta per tutte, ma qualcosa che dipende in grande misura dal nostro mondo emotivo e affettivo, dai nostri sentimenti e, in qualche modo, li modifica, in meglio o in peggio.
La fede può diventare grande – come ci ricordava la parabola del granello di senape –, ma anche rischiare di essere «poca», come dirà il vangelo di oggi.
“Una quieta piccola voce”
L’episodio del profeta Elia è molto noto e giustamente famoso (1Re 19,9a.11-13a). È arrivato persino in una celeberrima canzone di Bob Dylan, che ha come ritornello ai nostri numerosi interrogativi che ci capita di porci esattamente ciò che Elia capisce in un momento di crisi: The answer is blowing in the wind: La risposta è nel respiro del vento!
È importante aver presente il contesto, dove si discorre appunto di stati d’animo che – come si è detto – hanno a che fare con la fede. Il profeta viene da una schiacciante vittoria sui quattrocento profeti di Baal (1Re 18,20-40), seguita dal prodigio che segna la fine della siccità (41-46).
Ma l’evento scatena l’ira di Gezabele, la moglie del re Acab, che gli giura vendetta. Elia è preso dalla paura, si dispera e pensa di lasciarsi morire. Ma questo non è ciò che vuole Dio. Un angelo provvede a porgli del cibo, rafforzato dal quale Elia cammina «per quaranta giorni» fino al monte di Dio, l’Oreb (1Re 19,1-8). Lì si rifugia in una caverna, e al Signore che lo interroga confessa la sua paura. Il Signore gli ordina: «Esci, e fermati sul monte alla presenza del Signore».
La lettura odierna parte proprio da qui. Come potrà Elia scoprire in che modo si manifesta la presenza del Signore? Considerato il suo temperamento impetuoso, certo rassicurato e ringalluzzito dalle due “vittorie” precedenti, quella sui profeti di Baal e sulla siccità, parrebbe ovvio che il Signore si manifesti in segni di potenza: il vento impetuoso, il terremoto, il fuoco. No. Elia deve ricredersi, perché il Signore non è dove lui pensava naturalmente che fosse!
Resta l’ultimo segno, il «sussurro di una brezza leggera», ed è proprio lì che il profeta intuisce la presenza del Signore, come attesta il suo coprirsi il volto. Esce dalla caverna dove si era rifugiato, e si ferma sulla soglia, e di nuovo si sente dire: cosa fai qui? Segue un vero e proprio invio in missione che rimette Elia in cammino, rigenerato nella sua vocazione.
Cosa avrà voluto dire per lui quel «sussurro di una brezza leggera»? I commenti dicono che la frase è di difficile traduzione. La Bibbia di Gerusalemme la rende come «le bruit d’une brise légère»; l’inglese Revised Standard Version: «a low murmuring sound». Ma il meglio si trova nella Bibbia inglese del 1611, un capolavoro della letteratura britannica, che scrive: a still small voice (una quieta piccola voce).
Il prete e poeta gallese R.S. Thomas (1913-2000), che mi è capitato spesso di citare, ha composto una straordinaria poesia su questo brano, che cito interamente perché è la migliore meditazione che io conosca sul tema. Il titolo – “Soglia” – è già un programma. La “soglia” è quella sulla quale Elia esita dopo aver avuto la rivelazione, tra il buio della caverna e quello ancora più intenso del fuori. «Emergo dalla caverna / della mente nel buio più profondo / di fuori, dove le cose passano e / il Signore non si trova in nessuna. // Ho udito la quieta piccola voce/ ed era quella dei batteri / a demolire il mio cosmo. Io / ho indugiato troppo a lungo su // la soglia, ma dove posso andare? / Guardare indietro significa perdere l’anima / che io stavo conducendo in alto verso / la luce. Guardare avanti? Ah, // quale equilibrio si richiede / ai bordi di un tale abisso. / Io sono solo sulla superficie / di un pianeta rotante. Cosa // fare se non, come di Michelangelo / l’Adamo, tendere la mia mano / fuori verso lo spazio ignoto, / sperando che un tocco mi risponda?» (R.S. Thomas, Il senso è nell’attesa, Àncora 2010, p. 119, commento a p. 22).
Difficile rendere in modo più efficace quei momenti in cui, davanti a un cosmo che viene demolito da batteri distruttivi (si pensi al dramma sempre più impressionante dei disastri ecologici incombenti), si pencola nel vuoto, e la fede in un Dio provvidente e benefico vacilla, quando davvero si ha la sensazione di essere sull’orlo di un abisso senza riuscire né ad avanzare né a retrocedere.
Il titolo dato alla raccolta – Il senso è nell’attesa – è un verso del poeta, e non conosco altra uscita dal dilemma che non sia l’attesa, nutrita dalle lezioni che ci vengono dalla storia biblica, e soprattutto dalla vita di Gesù, attesa difficile, ma rischiarata dall’orizzonte della sua risurrezione, che annuncia e prepara «cieli nuovi e terra nuova».
L’amarezza di Paolo
La paura di Elia diventa, nella seconda lettura, la sofferenza di Paolo (Rm 9,1-5) davanti al dramma di quello che è pur sempre il “suo” popolo, che ha servito con la foga che conosciamo, e che è rimasto alla fine fuori dallo “spazio Gesù” e dal suo messaggio liberatorio e consolante.
Forse non ci è facile capire quanto sia importante per un ebreo un tale attaccamento al popolo, un senso di appartenenza che supera tutte le possibili differenze e incomprensioni. Penso a due casi emblematici che arrivano dal tempo della Shoà. Mi riferisco a Edith Stein, ora santa Teresa Benedetta della Croce, che, nata ebrea, non volle abbandonare il suo popolo nel suo tragico destino, e a Etty Hillesum, che, pur non essendo religiosamente praticante, fece la stessa scelta pur potendosi salvare.
Non è difficile immaginare la delusione dell’apostolo, che deve essere stata anche quella di Gesù stesso e della prima comunità cristiana, che sognava certo un possibile movimento popolare teso a riconoscere in Gesù il Messia annunciato, e che dovette alla fine fare i conti con il rifiuto della maggioranza, aggravato dal miserabile trattamento riservato a Gesù stesso con quella morte atroce.
Questa testimonianza di Paolo è un invito a non prendere troppo alla leggera le crisi che devono aver attraversato i discepoli e le prime comunità cristiane quando si videro non solo abbandonati, ma “perseguitati” proprio dai loro «fratelli» con cui avevano in comune «l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, e la stessa origine di Cristo». Devono essere stati ben convinti di essere nel giusto (e questa è la forza della risurrezione del loro maestro) per aver tenuto duro nella loro scelta.
Se Cristo non ti “afferra”
Il vangelo (Mt 14,22-33) si colloca perfettamente nel contesto dei due brani che lo precedono. La figura al centro del racconto, che nei sinottici appare come gemellato a quello della moltiplicazione dei pani, è in effetti una tempesta che “sconvolge” i discepoli che si trovano a navigare sul lago.
L’attacco del brano è strano: Gesù “costringe” i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva. La cosa ha tutta l’aria di un tentativo di metterli alla prova, di “indurli” nella tentazione per vedere come avrebbero preso la sua assenza, dato che lui «sale sul monte, in disparte, a pregare» e, «venuta la sera, se ne stava lassù da solo».
C’è un che di enigmatico in questa situazione. Perché non va con loro? Perché li lascia soli? È come se Gesù volesse abituare i discepoli a quella che un giorno sarà la sua partenza con l’Ascensione.
La tempesta improvvisa, la forza del vento contrario li sconvolge. In un racconto simile (Mc 4,35-41) almeno Gesù è con loro anche se “dorme”. Qui invece essi sono soli e, quando lo vedono avvicinarsi a loro camminando sulle onde, la reazione è comprensibile: «È un fantasma!», e gridano dalla paura. Ma Gesù li conforta e incoraggia: «Non abbiate paura, sono io».
Anche in questo si trova un’eco evidente nei racconti della risurrezione. Il dominio sulla mutabilità inaffidabile dell’acqua è chiaro segno della potenza divina.
Pietro esige però una prova: «Se sei tu, comandami di venire verso di te sull’acqua». Detto, fatto. Ma la paura ritorna, la fede si raggrinza, e l’apostolo, che rischia di affogare, ritrova la sua fragilità: «Signore, salvami». Gesù tende la mano, lo “afferra”, e lo salva, ricordandogli la sua «poca fede».
Ho messo tra virgolette il verbo che rende il gesto di Gesù, lo stesso che appare in Ebrei 2,16, dove la Bibbia CEI traduce: «Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura». Il greco e il latino della Volgata rendono alla lettera il verbo con apprehendit. Non è lo stesso. Forse nella traduzione si può trovare un accento di tenerezza materna.
Ma il grande vescovo anglicano Lancelot Andrewes (1555-1626), linguista finissimo (fu nella squadra di traduttori che produsse quel capolavoro che è la Bibbia inglese del 1611), coglie subito la differenza e, nel suo primo sermone per il Natale del 1605, commentando Eb 2,16, dedica quasi 20 pagine a scavare quel verbo! (Andrewes, Dio è diventato uomo, Qiqajon, Bose 2012, pp. 86-104).
Chi può, legga tutto il testo: imparerà a fare grande attenzione alle parole, non per mero estetismo, ma per entrare nel corpo vivo della Scrittura.
Mi limito a citare come lì viene spiegato il senso del verbo: «apprehendere significa afferrare con grande veemenza, impadronirsi di una cosa con tutte e due le mani, una cosa che siamo felici di aver trovato e che non vogliamo si perda di nuovo» (p. 89).
Quella “cosa” siamo noi. Emerge un Dio che in Gesù insegue l’uomo che si era perduto, e «non cessò il suo inseguimento, anche se lungo e penoso, e lui stanco e sfinito, anche se questo lo fece sudare, e un sudore di sangue» (p. 88).
Finché si resta uniti a questo Gesù, nessuna tempesta potrà farci paura. Anche nel nostro oscillare tra il rinunciare e l’affidarci, c’è sempre la possibilità di «sporgerci all’infuori / su un abisso immenso, lasciando / che il tuo nome esca e aspettando, / da qualche parte tra la fede e il dubbio, / gli echi del suo arrivo» (R.S. Thomas, Il senso è nell’attesa, Milano 2010, p. 105).
Fonte – Settimana News
Commento a cura di Nico Guerini