Il segno del pane
Non bisognerà aspettare molto per capire che il tentativo di Gesù di spiegare il senso delle sue affermazioni non ha successo. Il brano evangelico di questa domenica mette in scena un gruppo non meglio precisato di “giudei” che «si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”».
Il verbo – lo si è già visto – significa molto di più di quanto si intenda oggi: è non solo l’equivalente di una protesta, ma dichiara in modo chiaro un “rifiuto”.
Il pane del cammino
Alla ricerca dei vari significati che può assumere il termine “pane”, che regge tutta l’argomentazione del discorso di Gesù, siamo aiutati oggi da un brano che vede protagonista il profeta Elia (1Re 19,4-8). La situazione descritta è di piena crisi. Elia ha sfidato i profeti di Baal che, sotto impulso della regina Gezabele, erano straripati nel regno di Israele governato da Acab. Sono 450, e il profeta li sfida invitandoli a invocare Baal perché mandi il fuoco sul sacrificio da loro offerto.
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L’episodio è mirabilmente tradotto in musica nell’oratorio Elias di Mendelssohn con il contrasto tra la folla dei seguaci di Baal e il solo Elia, dimostrando con ciò che Dio è il vero re di Israele (1Re 18,16-40). La supplica dei profeti a Baal è tradotta in un poderoso coro, un ripetuto Ascolta dalla durata di circa quattro minuti, invocazione ripetuta cinque volte, ma la cui potenza finisce per sfasciarsi vista la sua inutilità: Baal non risponde, e la vittoria è di Elia, che punisce tutti i falsi profeti sterminandoli (nn. 10-16).
La regina risponde in modo furioso e, a causa delle sue minacce, Elia è costretto a fuggire nel deserto. Questo è il momento descritto nella lettura odierna, in cui il profeta, “desideroso di morire” arriva a dire: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri».
Il sonno che segue è frutto – accade – dello stato di depressione in cui è sprofondato Elia. Ma Dio non l’intende così: il profeta non può essere messo in silenzio. Appare allora un “angelo” che lo sveglia e gli dice «Alzati, mangia!», e lì accanto il profeta trova una focaccia e un orcio d’acqua. Elia torna a coricarsi, ma l’angelo riappare per invitare di nuovo Elia ad alzarsi e a mangiare per il lungo cammino che l’attende.
E così conclude la storia: «Con la forza di quel cibo Elia camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb». Il traguardo è significativo, perché quel monte è il luogo dove Dio si è rivelato a Mosè (Es 3,33-18-34,39), dove è stata conclusa l’alleanza (Es 19; 24; 34,28-10) che Elia torna a predicare. Su un altro monte, il Tabor, Gesù si trasfigurerà, e avrà accanto Mosè ed Elia, cioè “la Legge e i Profeti”, sintesi della fede di Israele, di quel cammino che porterà a Gesù come compimento e riassunto dell’intervento di Dio nella storia.
In questa vicenda, il pane costituisce un’immagine cruciale per indicare come il Signore assiste il suo popolo. Questo è da sapere quando sentiamo parlare del “pane di vita” in tutte le sue varianti e accezioni.
Tutto si riassume nella carità
Non esce certamente da questa prospettiva la seconda lettura (Ef 4,30-5,2). La differenza è che si passa dalla metafora del pane, incluse tutte le sue connotazioni, per entrare nella realtà concreta dei comportamenti. Così “la benevolenza, la misericordia, il perdono reciproco” diventano vero “pane di vita” per la nostra esistenza, mentre «asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» diventano “pane di morte” che amareggia la vita a partire dalle relazioni.
E, per finire, la lettera dice che il senso di tutto ciò si riassume nella “carità”, segno dell’amore di Dio che si rivela come dono di sé, vale a dire quel modo con cui Cristo «ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore». Non è forse vero che si trovano qui riuniti tutti i significati dell’eucaristia, già presenti in modo conciso nel racconto della moltiplicazione dei pani, che Giovanni nel suo vangelo sostituisce con il “sacramento” della lavanda dei piedi?
Il pane della vita
La sezione di vangelo che ha a tema il pane (Gv 6,41-51) si concentra sulla “mormorazione” che parte dai giudei, e di fatto costituisce per Gesù l’occasione di esporre in progressiva espansione il significato del termine chiave di “pane”.
Si faccia attenzione a questa sequenza di dichiarazioni, tutte introdotte da «Io sono», che è in pratica il nome YHWH (cf. Es 3,14), frase usata frequentemente dal quarto vangelo per mostrare la connessione diretta che esiste tra Gesù e il Figlio di Dio.
Questa è la sequenza delle affermazioni che via via qualificano il senso dato alla figura del pane: «Io sono il pane disceso dal cielo»; «Io sono il pane della vita»; «Io sono il pane vivo disceso dal cielo» e, infine, «Il pane che io darò e la mia carne per la vita del mondo».
Si noterà che esse costituiscono in un movimento a spirale che collega l’origine celeste con l’idea di vita, fino a riprendere poi il tutto con una dichiarazione chiara ed esplicita in cui Gesù, fuor di metafora, proclama che il “pane” che lui è pronto a dare è la sua «carne per la vita del mondo».
L’identificazione del pane con la carne rimanda a Gv 1,14, ed è l’effetto della discesa del Logos/Verbo nel corpo, che Gesù sceglie come sua “tenda” per dimorare in mezzo a noi. Si aggiunge lo scopo e il fine della stessa incarnazione: “per la vita del mondo”, che anticipa il discorso sul pastore buono: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10), parole che, come quelle che stiamo commentando, suscitano analoghe “mormorazioni” che sono insieme segno di stupore e in pratica di rifiuto.
Il primo stupore – già lo si è visto come reazione al discorso nella sinagoga di Nazaret in Mc 15,32 e par. – riguarda quella che appare come una pretesa di connettere il cielo con la terra. Gesù non risponde alla contestazione che gli viene fatta, ma procede imperterrito a glossare il senso di ciò che ha appena detto: «Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato», aggiungendo «e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Due cose sono da considerare: la prima stabilisce che la connessione con Gesù è opera dell’iniziativa del Padre, che solo può portare all’incontro con Gesù, perché solo lui “ha visto il Padre”, e dunque solo lui può rivelarlo e farlo conoscere.
Di nuovo si ritorna al Prologo, dove è detto: «Nessuno ha mai visto Dio, il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che l’ha narrato» (Fausti), o con ancor più precisione, secondo la traduzione letterale del greco, «ne ha fatto l’esegesi (exegéseto)».
La seconda considerazione stabilisce una reciprocità decisiva, per la quale il pane che viene dal cielo è lo stesso che, in risalita, regala l’accesso al cielo stesso. Si entra così in una circolarità virtuosa che garantisce l’immortalità.
Questo tema è ripreso a sviluppato con particolare ampiezza secondo quello stile a “spirale” tipico del quarto vangelo, sul quale conviene ricordare che questo è il vangelo che contiene il minor numero di parole, ma si tratta di termini semanticamente ricchi, e che vanno caricandosi di significato con il loro sistematico ritornare. Ecco perché, a prima vista, Giovanni sembra un testo semplice, che però va letto e studiato con estrema attenzione.
Per avere la vita
Un capolavoro del genere è il brano successivo, Gv 6,51-58, che si ritiene utile commentare brevemente qui dato che la festa dell’Assunta occuperà quest’anno la domenica 20.
Qui soccorre un ulteriore sviluppo del tema del pane e del vino, che sono offerti da un brano (Pr 9,1-6) in cui la Sapienza prepara un “banchetto”,il cui significato è nutrire chi è “inesperto” così che possa andare diritto per la via dell’intelligenza e “vivere”. Dio nuovo torna il tema della “vita” legato al pane.
È quanto commenta mirabilmente Ef 5,15-20, che invita a “comportarsi da saggi e non da stolti”, il che si ottiene non ubriacandosi di vino, ma cercando la gioia che deriva dall’essere «ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo».
Questo significa “fare buon uso del tempo” (alla lettera “redimere, o ricomprare il tempo”). In questa linea va letto il brano di vangelo, nel quale Gesù elabora il tema del “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”, condizione necessaria per “avere la vita”, una vita senza fine che ha garanzia della “risurrezione”, e infine – come spiegazione e senso di tutto – la possibilità di “rimanere in lui”, come lui rimane in noi.
È stato notato che il verbo reso con “mangiare” ha nel testo originale un senso molto più realistico del nostro “nutrirsi”, perché vuol dire letteralmente “morsicare”! Come si vede, è una cascata di temi che andrebbero meditati uno per uno con ponderazione.
Non a caso la conclusione del brano, che in certo senso riconnette tutti i fili del discorso, si esprime con queste parole lapidarie: «Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i vostri padri nel deserto e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Fonte – per gentile concessione di Settimana News | Commento a cura di Nico Guerini