La liturgia di oggi presenta come prima lettura un brano già ascoltato la notte di Natale (Is 8,23b-9,3). Ma è solo apparentemente lo stesso. C’è, all’inizio, una frase che allora era stata trascurata: la luce che splende nella notte riguarda «la terra di Zabulon e di Neftali», che prima era stata «umiliata», una terra di margini in tutti i sensi del termine, a partire da quello religioso, tanto che era chiamata la «Galilea delle genti», un miscuglio di popoli, inclusi i pagani.
E però, quello che sembra un dettaglio geografico, diventa in realtà una sottolineatura teologica. Se è già una grande epifania il fatto che la luce splenda «nella notte», il prodigio è che tale luce risplenda su una terra martoriata ed “emarginata”. Queste parole le risentiremo citate da Matteo che in esse vede la profezia diventata realtà in Gesù, con la sua scelta di partire dalla “Galilea” per annunciare la bella notizia di un «regno dei cieli» che ora, in lui, si è fatto «vicino».
Quello che scrive Isaia è già un preludio di ciò che annuncerà Gesù, perché nelle parole del profeta si possono già intravedere alcune caratteristiche di questo “regno”: una gioia straordinaria e sconvolgente (il termine, o un sinonimo, è ripetuto cinque volte in due righe, due volte come nome, tre come verbo!) che deriva anzitutto da un traguardo raggiunto, esemplificato nell’abbondanza del raccolto, e dalla conquista di una preda da condividere; in secondo luogo, nasce dalla vittoria trionfale su ciò che opprimeva (il giogo, la sbarra, il bastone), con la conseguente conquista di una grande e totale libertà. Che altro potrebbe essere più spettacolare di una «luce che splende nelle tenebre»?
Ancora una volta il profeta apre i nostri occhi su un panorama di pura bellezza, che intercetta le nostre esperienze di gioia e di liberazione per vederle anticipate in quella che sarà la vita e il messaggio di Gesù di Nazaret. Con il corollario, per nulla irrilevante, che queste esperienze arrivano dai “margini” dove meno ce le aspetteremmo, da quel Gesù che nasce a Betlemme, vive a Nazaret, e inizia il suo ministero dalla Galilea. Non è certo un caso che il grande biblista statunitense, John P. Meier, abbia intitolato la sua opera monumentale in cinque volumi, dedicata al “Gesù storico”, Un ebreo marginale!
Abitare i margini
Il tema della marginalità attraversa anche, come in sottotraccia, la seconda lettura, in cui Paolo si lamenta delle divisioni che sono sorte nella comunità di Corinto (1Cor 1,10-13.17).
Qui il discorso si fa difficile, ma ci provo. Qual è la radice di tali discordie? Credo che ciò derivi da un malinteso senso di appartenenza, oggi si direbbe un atteggiamento “gruppettaro”, basato sulla convinzione che il mondo si può dividere in due settori nettamente distinti: “noi” e gli “altri”, dove i “noi” possiedono la verità assoluta, e gli “altri” ne sono privi.
È un atteggiamento che si chiama giustamente “fondamentalismo”, che è tale perché in definitiva i “noi” provengono da una visione di sé come “centro” a partire dal quale è valutato tutto il resto, “resto” che, al massimo, è sopportabile come “margine”, quando non finisce addirittura del tutto fuori dallo spazio della propria considerazione, uno “scarto”.
Questa dicotomia dagli effetti devastanti non può essere addolcita con patteggiamenti vari, deve essere semplicemente demolita. Questa del noi-loro è una logica che va travolta. Ora, il modo più sicuro per sconfiggerla, dato che continua a rispuntare, è abitare i margini, quella zona oscura e indeterminata da cui si può partire verso il centro o uscire completamente dal quadro.
Immagino che chi ama le idee chiare e distinte, o i confini nettamente delineati, si troverà a disagio in tale discorso. Ma per conoscere la direzione da prendere varrà la pena ricordare che il Dio di Gesù Cristo, che occupa giustamente, e solo lui, il centro, ha portato nel centro gli stessi margini, e per giunta quelli estremi: la stalla di Betlemme e la collina del Golgota. Chi desidera seguire Dio al centro, dunque, deve abitare i margini.
Come? Credo si tratti di imparare a vivere nella realtà di ciò che siamo, vivere con le nostre ombre e le nostre luci, rinunciando al bisogno di “essere giusti” per lasciarci andare alla gioia di “essere amati”. Del resto, questo è proprio il cuore del messaggio del Natale cantato dagli angeli: il Salvatore che viene manifesta la gloria di Dio nei cieli e la pace portata sulla terra agli uomini che «egli ama».
Oggi si parla di «uomini amati da Dio». La traduzione finora usata, che parla di «uomini di buona volontà», poteva essere fuorviante: parrebbe che il Figlio non si sia incarnato per “tutti” gli uomini, ma solo per quelli “buoni”, che per il vero, se già sono tali, non hanno proprio bisogno di un salvatore! Volendo, si può anche mantenere l’espressione, purché si ricordi che – come scrive Giuliana di Norwich – in «ogni» uomo rimane una «volontà buona», che neanche il peccato di Adamo riesce a distruggere del tutto (Una rivelazione dell’amore, c. 51, p. 245), volontà che è «custodita integralmente in nostro Signore Gesù Cristo» (c. 53, p. 258). Ma è ovvio che, anche in questo caso, la fonte di tale “bontà” è l’amore gratuito di Dio, che ce ne fa dono (c. 43, p. 225), volontà che c’è prima, durante e dopo il peccato che ci separa da lui, perché lui comunque continua ad amarci.
Il Natale ogni anno ci ricorda che Dio si è reso visibile in un “ebreo marginale”, come si è detto. E dunque la festa ci rammenta che la fuga dai margini, inclusi quelli della nostra fragilità e del nostro peccato, per occupare chissà quale centro, è fasulla e illusoria, e in più ha la pessima ricaduta di farci sentire nel gruppo glorioso dei “noi buoni” in contrasto con “loro”, che buoni non sono. Se per caso cadessimo in questa illusione, si ricordi almeno quanto ha scritto san Paolo: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti» (Rm 11,32; cf. anche Gal 3,22). Ma si legga tutto il passo, Rm 11,25-32, in cui al centro si ritrova lo stesso ricorrente contrasto che divide il mondo in due: allora il “noi-loro” si riferiva al rapporto “ebrei-pagani”. A Corinto bastava molto meno: il riferimento a un leader!
Ma, se non se ne esce, non si va da nessuna parte: l’unica possibilità è, ahimè, lo scontro; solo la distruzione dell’opposizione tra i due gruppi permette l’incontro. E Paolo, saggiamente, ricorda che l’unico centro è «la croce di Cristo», che questi contrasti rendono «vana». Tema perfettamente centrato dal motto dei certosini: crux stat, dum volvitur orbis (la croce sta, mentre il mondo gira).
Anche i primi discepoli sono marginali
Dai margini, dunque, Gesù comincia a predicare, invitando a “convertirsi”, cioè a cambiare direzione. Mi viene da dire che, alla luce di quanto detto sopra, questo movimento implica la decisione di spostarci, di abbandonare il “centro” per ritrovare il nostro posto sui margini, insieme a tutti i nostri fratelli, dove Gesù per primo si è fatto trovare. Non c’è altra scelta, perché il «regno dei cieli» che lui annuncia come «vicino», cioè a portata di mano, è lui, che è poi l’unico vero centro.
Il vangelo (Mt 4,12-23) comprende altre due parti: la chiamata dei primi quattro discepoli, e un sommario delle prime mosse di Gesù. Sulla chiamata di Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni si è già scritto molto e non è il caso di indugiare più di tanto. Credo di poter dire che anche questo brano conferma una lettura dei testi odierni nella linea di quanto detto sin qui. Questi «pescatori» sono dei marginali nella società del tempo, così come i pastori di Betlemme, così come i magi, stranieri venuti dall’Oriente. E forse è la loro marginalità che li rende più attenti e più pronti di altri a seguire «subito» l’invito di Gesù con una velocità e una radicalità impressionanti: i primi due lasciano «le reti», gli altri due lasciano «la barca e il loro padre».
Cosa li ha convinti? Cosa li ha travolti in tale entusiasmo? È probabile che con questo “ritmo” impresso al racconto Matteo voglia darci un messaggio chiaro di come si debba rispondere a una chiamata imprevista e dalle conseguenze estremamente impegnative: diventare «pescatori di uomini»!
E cosa significasse seguire Gesù appare subito dal sommario che descrive la sua azione: «percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni specie di malattie e di infermità nel popolo».
Appare in questo «ebreo marginale» una figura in perenne movimento, e questo è già un segnale che lui non sta seduto nell’immobilità del centro aspettando che la gente vada a lui, ma vive la mobilità e la libertà dei margini per raggiungere altri “marginali” perché “malati o infermi” onde guarirli, per dare corpo alla “bella notizia del Regno” già in arrivo.
Cosa significa “guarire” in questo contesto? Forse rendere loro la salute fisica e la forza? Forse anche. Ma sappiamo pure che tante persone che vanno ai santuari per cercare la guarigione dalle loro malattie, anche quando (e sono la maggioranza) non la ottengono, dicono che tornano guariti nello spirito perché hanno imparato a far tesoro della loro malattia o infermità. Situazioni di sofferenza particolarmente acuta, sia essa fisica o morale, possono scatenare feroci risentimenti. Ma invece accade che tali rancori guariscano pian piano fino a mutarsi in voglia di misericordia.
Il tornante decisivo è una presa di coscienza dalle conseguenze enormi: la percezione che tale “voglia di misericordia” ha bisogno anzitutto di travolgere l’opposizione “noi-loro”, che tanti guai ha creato e crea nella società e nella Chiesa, per abbracciare tutti in un “noi” globale, che è poi il sogno di Dio e lo scopo della sua venuta tra noi: un mondo riconciliato.
In sintesi: il punto è trarre, da una situazione di oggettiva “minoranza”, o per un handicap fisico, o per una marginalizzazione sociale, o per una qualsiasi debolezza, non una sofferenza mal subita che spinge a “maledire”, ma un’opportunità di nuove intuizioni e nuove prospettive che portano piuttosto a “benedire” e ad allargare il cuore. Che è il senso dell’Incarnazione nella vertiginosa sintesi già vista della poetessa E. Jennings: «Prese la nostra polvere, e le insegnò a benedire».
A cura di Nico Guerini, studioso di letteratura, esperto di testi di mistica, ha pubblicato vari libri di spiritualità.