Un “pane” da condividere
Nell’anno B, data l’impossibilità di usare per tutte le domeniche il vangelo di Marco, causa la sua brevità, è stato deciso di utilizzare in sostituzione Giovanni che, nel lunghissimo capitolo 6, sviluppa un’articolata riflessione sul tema del “pane”, un’immagine che raccoglie in sé molti aspetti di questa metafora madre, cruciale per comprendere nella sua totalità il significato della figura, o meglio sarebbe dire del “mistero” di Gesù.
Dico subito che il passo scelto per iniziare la serie dei brani giovannei fa, in certo senso, da ponte tra la conclusione degli ultimi brani di Marco dedicato a varie forme di “stupore”, perché, da una parte, mostra come, davanti al miracolo dei pani, questo “segno” sia frainteso e, dall’altra parte, apre il grande discorso sul “pane di vita” destinato, esattamente, a superare l’equivoco.
Pane di Dio e dell’uomo
Di pane si parla subito nella prima Lettura (2Re 4, 42-44), breve, ma molto importante per capire il resto della storia e il senso del miracolo dei pani. Si parte da «un uomo che porta pane di primizie al profeta Eliseo», materialmente «venti pani d’orzo”, secondo un rito ben noto e universalmente praticato, per cui le “primizie”, a partire dai primogeniti dell’uomo, sono destinate a Dio, in quanto si riconosce in lui il creatore e l’origine della vita, ogni vita!
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Ma la reazione del profeta è imprevista e sorprende, perché l’offerta era destinata ad essere soppressa, in quanto l’offerente rinunciava al suo possesso avendolo messo nelle mani del Signore. Eliseo, infatti, dà un ordine che non va nella direzione sperata: «Dallo da mangiare alla gente»!
Che senso ha questo stornare il pane donato a Dio perché diventi nutrimento dell’uomo?
La prima cosa da considerare è che, nella fede, non si può separare il Creatore dalla creatura; dunque, pensare di onorare Dio ignorando i suoi figli non può essere un gesto corretto nel suo significato integrale.
In secondo luogo, l’invito di Eliseo riguarda proprio il significato del dono stesso: se uno ne capisce bene il senso, questo porta a donare a nostra volta, secondo un principio già formulato da Gesù (cf. Mt 10,8). Bella l’idea, certo, ma, come accadrà nel vangelo, la proposta si scontra con la nostra radicale impotenza: «Come – obietta il servo – posso mettere questo davanti a cento persone?».
Ma Eliseo non recede dal proposito, ripete l’invito e, per motivarlo, fa appello direttamente al Signore, che continua ad essere il vero protagonista della storia: «Così dice il Signore: Ne mangeranno e ne faranno avanzare». Questo è ciò che accade.
Rimane solo da considerare il senso degli “avanzi”. Il significato non è difficile da scoprire, ed è questo: il Signore non fa mai miracoli col misurino, la “sua” generosità è infinita, e dobbiamo misurare la “nostra” tenendo come orizzonte proprio quella che ci viene mostrata in Dio. L’orizzonte, come si sa, non ha limiti.
Apologia dell’unità
Un’altra pagina stupenda (Ef 4,16) viene a confermare quanto appena detto. Il tema di fondo è l’apologia dell’unità, espresso in una formulazione essenziale e concisa, che echeggia una probabile origine liturgica, forse una confessione di fede legata al rito del battesimo: «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti».
Sono parole che andrebbero ripetute, e fatte ripetere, come ci ha abituato a fare papa Francesco nella sua predicazione. Sono anche presenti in un canto che proprio oggi sarebbe il caso di eseguire.
A ricordarci che tale unità, anche se dura e a tratti difficile, non è in pio desiderio, ma una proposta di vita praticabile, provvede la prima parte della lettura, in cui ci viene chiesto di comportarci «con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandoci e vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace».
E, in questo contesto, non si può dimenticare la Didaché, che nell’anafora eucaristica prega così: «Come questo pane spezzato, che era sparso sui colli, una volta raccolto è diventato una cosa sola, così la tua Chiesa venga riunita dai confini della terra nel tuo regno».
Come provvedere a tanta gente?
Il vangelo (Gv 6,1-15) è chiaramente il punto d’arrivo della liturgia odierna. Come si è detto, il brano della moltiplicazione dei pani e dei pesci è tratto dal vangelo di Giovanni, un racconto di miracolo che diventa un “segno”, termine che il quarto evangelista preferisce, perché l’episodio serve a introdurre nel mistero di Gesù, che in questo caso diventa una lunga catechesi sul “pane di vita”.
La versione giovannea dell’episodio, decisamente più lunga di quella dei sinottici, merita un’analisi attenta onde cogliere ciò che caratterizza il racconto.
Alla partenza il contesto è quello comune, secondo il quale Gesù è seduto tra i suoi discepoli intento ad ammaestrare la «grande folla» che lo seguiva. Ma due dettagli attirano l’attenzione: il fatto che Gesù «sale sul monte», e che «era vicina la Pasqua dei giudei».
È stato notato che il monte preceduto dall’articolo determinativo pare indicare una montagna precisa, che in questo caso sarebbe il Sinai, da dove è venuta la Legge. Completa questa osservazione il cenno alla Pasqua che è vicina, il che aggiunge al dono della Legge quello della manna, due ingredienti cruciali nello sviluppo che ne farà Gesù nel discorso che segue.
Qui appare il “problema”, presentato da Gesù in termini che echeggiano un simile interrogativo posto da Mosè (Nm 11,13): come provvedere a tanta gente?
Egli rivolge la domanda a Filippo, ma si tratta di una domanda retorica, perché Gesù «sapeva già quello che stava per compiere», e dunque si tratta di un test che intende mettere alla prova la fede di Filippo.
Lo stesso vale per Andrea, che, pur segnalando che «c’è un ragazzo che ha con sé cinque pani e due pesci», è costretto ad ammettere la radicale insufficienza della soluzione proposta.
A questo punto il racconto può continuare, e dunque Gesù ordina di far sedere la gente su un tappeto d’erba, che pare un’eco del Sal 22,2: «Su pascoli erbosi mi fa riposare». La grande folla si materializza nel numero di «cinquemila uomini».
Ed ecco il gesto decisivo: «Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano là seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanti ne volevano». Non si fatica a leggere in queste parole le formule di un rituale che doveva essersi stabilito molto presto nella nascente comunità cristiana, come del resto testifica con precisione il racconto della 1Cor 11,23-24 su come celebrare la Cena del Signore.
È molto importante cogliere la ricchezza di senso di questi tre gesti, che udiamo al centro della Preghiera eucaristica ogni volta che partecipiamo alla messa. Gesù “prende” quel poco che noi offriamo, lo “benedice”, ricordando così che ciò che offriamo viene da lui, e alla fine lo “dona” a quanti ne hanno bisogno. In tal modo insegna anche a noi come entrare nello stesso circolo virtuoso, che nel suo essere è vita, accolta e data, in un contesto di benedizione che ricorda l’origine del creato, quando Dio dice che tutto ciò che ha fatto è “cosa buona”. Può sorprendere l’ordine di raccogliere «i pezzi avanzati», ma questo è fatto «perché nulla vada perduto», e il numero “dodici” che indica la completezza, dice, da una parte, la generosità del dono e, dall’altra, suggerisce un possibile uso successivo per futuri credenti di ciò che è rimasto.
La conclusione del brano è sconcertante. La folla che seguiva Gesù per vedere dei “segni” è accontentata, e alla grande, al punto che arriva a dichiarare: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo». Ha visto dei segni, ma non ne ha capito il senso. Perché la risposta è la volontà di «prenderlo per farlo re»! Qualcuno a volte commenta osservando che così avrebbero avuto il pane assicurato.
Ma Gesù si sottrae alla folla, come era già accaduto alla sinagoga di Nazaret, quando, alla sua affermazione di essere la realizzazione della profezia di Isaia diceva come su di lui fosse disceso lo Spirito, con una reazione di vero furore, avrebbero voluto precipitarlo in un burrone, ma anche allora Gesù si era sottratto alla loro follia.
Da questo punto di vista, il segno della moltiplicazione dei pani non ha funzionato, è stato un fraintendimento, e la stessa “confessione di fede” che aveva visto in lui “il profeta” si era rivelata un miserevole equivoco. Nella frase conclusiva appare evidente lo sconforto che prende Gesù: «si ritirò sul monte, lui da solo».
Nel lungo discorso che seguirà, Gesù tenterà in tutti i modi di sfatare l’equivoco, ma troverà un ostacolo insormontabile, un muro che genera un pratico rifiuto: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» e, alla fine, «molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui».
San Bernardo in un uno dei suoi Sermoni diversi (Div. V, 1-2), mostra come non sia la parola ad essere dura, ma è il cuore, ostinato e testardo, e le orecchie, che non riescono ad ascoltare e tanto meno a capire. Gesù è talmente amareggiato che dice ai discepoli: «Volete andarvene anche voi?». Sappiamo, per fortuna, quale fu la risposta di Simon Pietro, che suggerisce e prepara anche la nostra.
Fonte – per gentile concessione di Settimana News | Commento a cura di Nico Guerini