Nico Guerini – Commento al Vangelo di Domenica 24 Gennaio 2021

Tra il rifiuto e la sequela

Riprendiamo in questa domenica il tema della vocazione, troppo importante per ritenere che basti averne parlato una volta sola. Anche perché c’è sempre qualche elemento in più da inserire nella riflessione, e perché è utile – e direi decisivo – mantenere costantemente in noi un atteggiamento vocazionale, che ci tiene sensibili e aperti alle “richieste” che vengono dal mondo e dalla vita, contro il rischio di rinchiudersi nel nostro piccolo mondo, angusto e a tratti asfissiante.

Il profeta riluttante
Mentre domenica scorsa a introdurre il discorso era stata proposta la gentile vicenda del giovane Samuele, a indicare che il protagonista di ogni vocazione è alla fine Dio stesso, anche se spesso si serve di intermediari, oggi è la storia tortuosa e a tratti persino buffa di Giona che ci viene presentata.

In questo racconto popolare, contrariamente alla prontezza radiosa e simpatica di un adolescente che dormiva nel tempio, troviamo la resistenza cocciuta e testarda di un adulto che rifiuta di obbedire all’invito di Dio perché spaventato dalla difficoltà della missione ricevuta. Cerca di fuggire, mette in pericolo la nave su cui si era imbarcato a causa di una tempesta improvvisa, in cui Giona vede un castigo per la sua fuga. Si fa perciò gettare in mare per salvare i marinai, ma è ingoiato da un grosso pesce, che gli fa da nave per tre giorni e tre notti, e alla fine viene vomitato su una spiaggia da dove potrà raggiungere la città di Ninive alla quale era destinato, dove predicare l’invito a far penitenza secondo il compito che gli è stato affidato da Dio.

Qui riceve una seconda volta la vocazione, «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico» (Gn 3,1-5.10).

La predicazione ha successo, ma la cosa non va giù al profeta, che si indispettisce davanti a dei pagani che sono salvati dalla misericordia di Dio pur non appartenendo al popolo eletto.

Non c’è niente di veramente storico nel libretto che va sotto il nome di Giona. Si tratta piuttosto di un racconto “parabolico” che intende denunciare sentimenti non corretti, soprattutto il risentimento che albergava nel cuore degli ebrei di ritorno dall’esilio babilonese, la cui origine è una sola: l’invidia, che nasce al vedere che la misericordia di Dio non è ristretta agli angusti confini di Israele e riservata unicamente al popolo eletto, ma chiunque si pente del male commesso è raggiunto dal perdono di Dio.

È il risentimento del figlio maggiore davanti al comportamento del “padre prodigo” che accoglie con la festa il figlio minore, ritrovato dopo che era partito da casa pretendendo in anticipo l’eredità poi sperperata in una vita dissoluta e fallimentare (Lc 15,11-32).

Sono i “bravi” che sentono di avere diritto a un trattamento preferenziale, ma per costoro – e in verità per tutti – il libro di Giona, contiene un insegnamento della massima importanza: «Rompendo con il particolarismo nel quale la comunità postesilica era tentata di chiudersi, questo libro predica un universalismo straordinariamente aperto. Qui, tutti sono simpatici, i marinai pagani del naufragio, il re, gli abitanti, e perfino gli animali di Ninive, tutti, tranne l’unico israelita in scena – ed è un profeta – Giona! Dio sarà indulgente con il suo profeta ribelle, ma, soprattutto la sua misericordia si estende anche alla nemica più vituperata di Israele, la città di Ninive. Siamo molto vicini al NT: Dio non è solo il Dio dei giudei, è anche il Dio dei pagani, poiché non c’è che un solo Dio (Rm 3,29)» (Bibbia di Gerusalemme, p. 1709).

Dopo il ritorno dall’esilio, si formarono di fatto in Israele due atteggiamenti: quello del “resto santo” che tendeva a chiudersi rigidamente nelle norme tipicamente israelitiche codificate nella Legge, e quello di chi, fuori dalle frontiere, aveva scoperto altri territori dove poteva arrivare l’azione di Dio, il che produceva una teologia separatista da un parte, alla quale si contrapponeva una teologia universalista dall’altra, quella che trova espressione, per esempio, in Isaia 52 e 63, e nei libri di Rut, Giuditta e, appunto, soprattutto Giona. Inutile aggiungere che tale tensione non è finita con la nascita del cristianesimo.

Siamo “padroni di niente”
Il secondo brano proposto per oggi (1Cor 7,29-31) pare svolga un discorso che va per conto suo, conseguenza del fatto che nel tempo ordinario la seconda lettura segue uno schema che presenta passi scelti delle varie lettere paoline, non immediatamente legati alla prima e alla terza che risultano invece connesse. Ma, rimanendo nell’ottica della vocazione (tra l’altro il brano odierno è tratto da una sezione della lettera che tratta di matrimonio e verginità), vi troviamo un’affermazione che risulta cruciale: il tempo presente è «breve», perché «passa la figura di questo mondo», con il risultato di imparare a leggere il rapporto col tempo in prospettiva escatologica, oltre ciò che offre l’immediato.

Questo sguardo ha l’effetto di “relativizzare” ciò che possediamo e usiamo, o, come scrive Paolo: «quelli che comprano come se non possedessero, quelli che usano i beni del mondo come se non li usassero pienamente». Tradotto in prosa: non siamo veramente “padroni di niente”, e del resto non si fa fatica a comprendere che l’istinto “padronale”, o la possessività che portiamo in noi, è ciò che dà origine alla maggior parte degli errori che commettiamo nelle relazioni.

Quello che, invece, costituisce l’elemento chiave che genera una “vocazione” è l’uscire da noi stessi per scoprire i bisogni degli altri, e insieme, la possibilità di venire in soccorso del prossimo.

Lo stesso dinamismo è incluso anche nella scelta matrimoniale, intesa dall’origine come «mutuo aiuto» (Gen 2,18), per fare della vita un percorso di scambio di beni, che non sono proprietà di nessuno ma che vanno usati per l’utilità di tutti.

“Pescatori di uomini”
Veniamo al vangelo (Mc 1,14-20), che presenta la chiamata dei primi quattro discepoli.

A differenza del brano ascoltato domenica scorsa, qui è Gesù in persona che prende l’iniziativa nei confronti di due coppie di fratelli, la prima delle quali, i fratelli Andrea e Simone, è già apparsa nel racconto di Giovanni già udito.

Giustamente, il brano inizia dal versetto fondamentale con cui Gesù si presenta in Galilea a proclamare il vangelo di Dio, perché ogni vocazione è una scelta in ordine a realizzare un “ideale”. E questo è, nell’itinerario di Marco già utilizzato nella domenica del Battesimo, il “manifesto” che presenta il progetto di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel vangelo». Due affermazioni, due conseguenze, stabili ambedue: il fatto è lì, sempre lì, nel messaggio proclamato; le risposte di chi lo ascolta sono operazioni che chiedono un impegno continuo e perseverante nel fluire dei giorni.

L’affermazione esigerebbe un commento appropriato, quello che si può fare non tanto nel tempo di un’omelia ma in quegli incontri di gruppo che, beneficamente, da anni si sono costituiti nelle parrocchie per preparare la messa domenicale. Qui basti ricordare velocemente il senso di alcune parole.

1) Il tempo di cui si parla qui non è quello cronologico, ma rimanda a quei momenti della storia in cui accade qualcosa di decisivo che rivela un intervento di Dio che risulta opportuno, il “compimento di un’attesa” che chiede una presa di posizione da parte nostra.

2) Questo tempo – chiamato kairòs – è ora a portata di mano, e il vangelo servirà a dimostrare che il regno di Dio non è una nazione, un territorio o un trono, ma è lo stesso Gesù nella sua vita e nella sua parola.

3) Questo fatto esige un cambio di mentalità chiamato conversione, non tanto il gesto di un momento, ma un atteggiamento costante di valutazione del nostro comportamento.

4) L’orizzonte di tutto è un altro sentimento: la fiducia nel progetto, un invito a fidarsi del vangelo, una certezza continuamente da rigenerare, contro tutte le crisi e i fallimenti, che il messaggio di Gesù è davvero una “bella/buona notizia”!

Il racconto stenografico di Marco prosegue con le due chiamate, che non sono identiche. La prima è rivolta a due poveri pescatori che gettano le reti dalla riva, la seconda ad altri due che poveri non sono, perché possiedono barca e garzoni che permette loro di andare al largo raccogliendo abbondanza di pesce, noti anche come “figli di Zebedeo”, una persona di una certa importanza.

Gesù fa una proposta che porta a un altro livello la loro professione: li farà «pescatori di uomini»!

Non so quanto tempo può essere stato necessario perché Gesù e i quattro si capissero. A Marco importa marcare la “velocità” della risposta: una è in Simone e Andrea, che “subito” andarono dietro a lui; l’altra è in Gesù stesso che, “subito”, forse sull’onda dell’entusiasmo suscitato in lui dalla pronta risposta dei due, chiama Giacomo e Giovanni, che rispondono con altrettanta prontezza. Gli uni e gli altri “lasciano tutto” per seguire Gesù: hanno trovato ciò che riempirà di senso la loro vita!

Per il vero, questo slancio non significa che abbiano pure “capito tutto”. Il seguito della narrazione evangelica mostrerà vari momenti in cui non comprendono ciò che dice o fa Gesù, soprattutto con gli annunci della futura passione, e hanno persino paura a fargli domande (Lc 9,45; 19,34). Ma, anche là dove il discorso è “duro”, Pietro per tutti ha la risposta: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). La chiarezza dell’obiettivo, la fiducia in colui che chiama a seguirlo: questo è l’orizzonte della vocazione.

FonteSettimana News | Commento a cura di Nico Guerini


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