Imparò l’obbedienza da ciò che patì
Ci avviciniamo alla Pasqua, e la Parola di Dio ci sta educando a poco a poco a comprendere bene il senso di quanto verrà proposto al nostro sguardo e alle conseguenze di quanto vedremo per la nostra vita.
Oggi le letture riassumono il senso globale della Pasqua nell’offerta di una “alleanza nuova” (prima lettura), mostrano, in Gesù che soffre, Dio che impara la compassione raggiunta attraverso la prova (seconda lettura) e, infine, mette in scena direttamente lo stesso Gesù, turbato come in una specie di agonia del Getsemani, che supera la paura raggiungendo la piena consapevolezza di una verità che ha governato tutta la sua vita: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore rimane solo; se invece muore, produce molto frutto».
Il tema dell’alleanza è già comparso nelle domeniche I e III di Quaresima, e là è stato illustrato. Il nucleo è costituito dalla volontà di Dio di entrare in relazione con l’uomo in una sorta di patto di mutuo aiuto, promessa e risposta, al fine di salvarlo dal disastro.
Un’alleanza “nuova”
Oggi il profeta Geremia (31,31-34) ci fa entrare a fondo nella natura di un rapporto che potrebbe essere percepito come un contratto di tipo burocratico, ma che era stato pensato come un “patto” tra persone, delicatamente “prese per mano” dal maggiore protagonista dell’accordo per farle uscire da una terra di schiavitù, patto che purtroppo era stato infranto. È compito dei profeti richiamare, quando è il caso, che, se anche il popolo non fa la sua parte e viene meno all’impegno, Dio però non molla la presa.
Ed ecco che, nel caso, Dio dà vita a “un’alleanza nuova”, formula che sentiamo ogni volta che partecipiamo alla messa, e che siamo invitati ad approfondire sempre più nel suo significato. Perché tale formula viene dalle labbra dello stesso Gesù quando celebrò l’ultima Pasqua, un’alleanza che porta il sigillo del suo sangue (cf. 1Cor 11,25 e Lc 22,20). Dove sta la novità? Geremia la spiega con quattro ragioni che vanno ben soppesate.
La prima è che l’alleanza non sarà più affidata alla pietra come per il Decalogo, e neanche a un rito come la circoncisione, che marcava fisicamente l’appartenenza al popolo eletto che ne era il partner. L’alleanza viene ora “scritta sul cuore”! Non è nel mondo delle carte, o in quello dell’appartenenza etnica, e neanche nell’impegno a certe pratiche rituali. Tutto ciò diventa in qualche modo “relativo”. Il “cuore” – come è noto – nella Bibbia non è solo il mondo delle emozioni, pure importanti, ma è il vero centro della persona, il luogo dove la volontà prende le decisioni e fa le sue scelte.
La seconda ragione è che proprio per questo il patto crea tra i due contraenti una “comunione” della più alta qualità: Dio e il popolo arrivano ad appartenersi l’un l’altro. Dio può dire “il mio popolo”, e il popolo può dire “il mio Dio”, un’appartenenza che è libera e volontaria, sulla base di un amore che si muove in ambedue le direzioni.
Una terza ragione è che tale comunione non avrà neanche bisogno di diventare un ordine, “religioso o autoritario” che sia, ma sarà come un movimento spontaneo, come quello che nasce tra due innamorati. E questo vale per tutti, “dal più piccolo al più grande”.
La quarta e ultima ragione, anche legata alla forma asimmetrica del rapporto tra Dio e l’uomo, sta nello stesso creatore dell’alleanza, Dio, che, da protagonista principale, offre quanto ha di suo: «io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».
Alla scuola della sofferenza
Il breve testo di Eb 5,7-9 è uno dei passi più belli di questa Lettera che gioca magistralmente sulla coesistenza in Gesù della natura divina e di quella umana, con una certa insistenza su questa seconda, forse come reazione a certe correnti gnostiche che tendevano a svaporare la parte umana del Figlio di Dio incarnato in Gesù di Nazaret, un modo di pensare, quello gnostico, che può rinascere in ogni tempo.
Questa diversa accentuazione appare qui in modo che non potrebbe essere più trasparente. Il Figlio sperimenta un dolore tale che, di fronte alla sofferenza che gli stava davanti, fu spinto a pregare Dio «con forti grida e lacrime» per essere salvato dalla morte. Sullo sfondo appare in tutta la sua drammaticità l’agonia del Getsemani, dove abbiamo già la parola chiave di questa supplica: «Se è possibile, passi da me questo calice, e però non come voglio io, ma come vuoi tu». Questo “pieno abbandono” alla volontà di Dio gli meritò di “essere esaudito”, anche se la croce non sembra un esaudimento: ma si veda il seguito.
Attraverso questa situazione che lo immerge nella tristezza e nella paura – uno stato d’animo che rasenta la disperazione – egli «imparò l’obbedienza da ciò che patì», quella che lo ha reso «perfetto».
Che la sofferenza sia una scuola è ben noto: dipende da come la si vive. Mi capitò di sentir dire a proposito di una persona che conosco bene: «È molto buono, si vede che ha sofferto».
Mi chiedo perché non si è allungata la lettura con i versetti che precedono il passo utilizzato, nei quali si dice: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,15-16) e, come si dice poco prima: «Egli è in grado di sentire compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza» (Eb 5,12).
Gesù davanti al patire
Il vangelo ci offre un campione del “turbamento” di Gesù (Gv 12,20-33), quasi a materializzare con il tocco concreto dell’esperienza quello che poteva anche essere preso come un’affermazione teorica.
Il racconto parte da una sorta di situazione accidentale, anche se è nel suo genere curiosa, «sei giorni prima della Pasqua», dopo che Gesù è andato a Betania a cercare ospitalità tra amici, e forse anche un luogo di un rapporto sereno nell’atmosfera di crescente ostilità che stava sperimentando.
Mentre aumentano quelli che lo “cercano” per farlo fuori, accade che questa volta a cercarlo siano «alcuni greci» che chiedono a Filippo: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo va a dirlo ad Andrea, e poi i due insieme vanno da Gesù.
La risposta di Gesù è a suo modo sconcertante. Non risponde direttamente alla richiesta ma, con assoluta naturalezza, mostra a chi lo cerca il suo stato d’animo più intimo.
Quasi a prendere le distanze da se stesso, parte enunciando, nel modo solenne delle proclamazioni importanti, un principio di carattere generale, quello sul chicco di grano ricordato all’inizio. Poi trascina in quella stessa visione quelli che lo stanno ascoltando: «Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua e, dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà».
Sono parole mirate a preparare il terreno alle affermazioni sconvolgenti che seguono. Sono frasi brevissime, ma che nascondono in poche parole il dramma di Gesù. Chissà quanto tempo gli è costato per arrivare a farlo proprio: «Adesso l’anima mia è turbata: che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Tre tappe in due righe! Il turbamento anzitutto, poi la sua causa, che è la paura della morte e, infine, il suo effetto nella consapevolezza che con tale morte il Padre sarà glorificato! È noto che a dirigere e orientare la vita di Gesù, già dalle nozze di Cana (Gv 2,4), è l’attesa di questa Ora. L’attesa di ciò per il quale è venuto è ormai terminata e, come nel battesimo, qui viene «una voce dal cielo» a confermare quanto Gesù ha intuito: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora».
Il messaggio – e questo conta, e molto – è udito dalla «folla» e, come spesso in Giovanni, quando interviene qualcosa che sa di divino, la reazione è doppia e contrastante: c’è chi percepisce la voce come un tuono, e c’è invece chi vi vede l’intervento di un angelo.
Il caso più emblematico in Giovanni è la guarigione del cieco nato con le due opposte reazioni. Tocca a Gesù stesso spiegare il senso di quanto è accaduto. La prima cosa che dice è: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi». Lui aveva già capito cosa intendeva dire la voce del Padre che aveva risposto alla preghiera del Figlio, una volta assicuratosi del suo abbandono e della sua disponibilità ad affrontare la morte. Quella voce significava ed era il “giudizio di questo mondo”.
Quale giudizio? Gli effetti straordinari e impressionanti di quella che resta pur sempre una morte, quella di Gesù, sono sostanzialmente due.
Il primo è che «il principe di questo mondo sarà gettato fuori». Questa è la conclusione della lotta tra la luce e le tenebre: la sconfitta delle tenebre che non sono riuscite a soffocare la luce (cf. Gv 1,5), e la vittoria della luce è proprio là dove il demonio poteva illudersi di essere stato lui il vincitore. I Padri hanno spesso, alla luce di questo passo, illustrato l’umanità di Cristo come l’esca usata da Dio per ingannare il demonio che, credendo di aver avuto il sopravvento, in realtà aveva dovuto ingoiare la sua disfatta. «O morte, sarò la tua morte, sarò il tuo morso, o inferno», come canta la liturgia pasquale.
Il secondo effetto è la grandiosa trasfigurazione della croce, che da patibolo diventa vessillo regale di vittoria! L’essere alzato su un patibolo è in realtà l’elevazione alla gloria (cf. Gv 12,32), come canta il Pange lingua: «Canta o lingua la gloriosa / lotta che si scatenò, / della croce, ora trofeo, / la vittoria celebra, / come il redentor del mondo / immolato trionfò», o come proclama il Vexilla: «Avanzan del re gli stendardi / la croce è mistero di luce, / chi il corpo plasmò nel suo corpo / appeso a un patibolo pende. // O altare, o vittima, salve, / o gloria della passione: / la vita ha patito la morte, / la morte ha ridato la vita». Viviamo questa fede!
Fonte – per gentile concessione di Settimana News | Commento a cura di Nico Guerini