Nico Guerini – Commento al Vangelo di domenica 19 Aprile 2020

«La sera di quel giorno, il primo della settimana» (Gv 20,19). Così inizia il brano evangelico odierno, e questo può fare da filo conduttore della riflessione di oggi, almeno per due ragioni: questa apparizione diventa, per la cronologia, il dato che fonda il giorno del Signore, alias dies dominica, e della sua cadenza settimanale; in secondo luogo – e il dato è cruciale – il luogo privilegiato dell’incontro con il Risorto è la comunità che è nata da lui.

Una comunità di fratelli

Il quadretto che Luca in At 2,42-47 disegna della prima comunità, che era nata e stava crescendo a Gerusalemme dopo la Pentecoste, sembra più un sogno che una realtà. È vero! Forse però è meglio dire che è sì un sogno, ma non è aria, anzi, possiede una forza tale capace di irrorare, pervadere e fecondare in continuazione la realtà, come sotto il vento dello Spirito che la fa vivere. È ben noto, per esempio, che moltissime, fondazioni monastiche e religiose, se non tutte, sono nate dalla volontà di costruire comunità ispirate al quadretto lucano.

La lettura proposta per la liturgia di oggi, anche se è piuttosto conosciuta, merita sempre di essere considerata con grande attenzione, perché ora una, ora l’altra delle parole che contiene, può aprire sguardi nuovi, o più chiari, su cosa vuol dire per noi essere Chiesa.

Ho parlato di “comunità”, e non a caso, perché la “comunione” era uno dei quattro elementi sui quali si basava la comunità, e come se non bastasse, poco dopo si rimarca che «avevano ogni cosa in comune», e, per finire, il gruppo di quelle persone è qualificato con un sostantivo preciso: sono una “comunità”.

Sono già passati tanti anni dalla conclusione del concilio Vaticano II, ma ricordo ancora l’entusiasmo di quegli anni, quando si tornò a pensare la Chiesa come koinonia, andando oltre quella di «società perfetta», nata forse con buone intenzioni (la societas nel medioevo era un rapporto fraterno, che Ildegarda di Bingen usava per descrivere il matrimonio), ma che, col tempo, ha finito per causare non pochi guai, fino al dominio di una visione pesantemente “giuridica” della Chiesa.

I quattro elementi della comunione sono tutti tremendamente importanti, e vanno tenuti insieme come i quattro pilastri che sostengono una volta a crociera, che ha nella “perseveranza” quella che si chiama la chiave di volta, il perno che regge tutto.

Non a caso si comincia dall’ascolto della Parola, che è il punto di partenza e la condizione per la continuità e la crescita della vita comune: «la fede viene dall’ascolto, e l’ascolto riguarda la parola di Cristo», come proclama lapidariamente Paolo in Rm 10,17.

La parola genera e rigenera la “comunione”, che è la vita fraterna, quella che si esplicita concretamente in alcune pratiche dettagliate più sotto: stare insieme, avere ogni cosa in comune, vendere proprietà e sostanze dividendole con tutti per sovvenire ai bisogni di ciascuno, prendere il cibo insieme con letizia e semplicità di cuore.

Le due condizioni che seguono sono gli elementi rituali, che simboleggiano e prendono senso dalle pratiche suddette, con attenzione a che non si perda mai la loro connessione intrinseca, perché, se si separano, rischiano di perdere fiato e di estinguersi ambedue. Sappiamo tutti, credo, quanto sia difficile tradurre in pratica questo “sogno”, soprattutto quando la comunità concreta in cui si vive pare ridursi a un pollaio di galli e galline in cui lo sport preferito è quello di beccarsi gli uni gli altri.

Mi viene istintivo, a questo punto, rimandare alla lettura del primo capitolo de La vita comune di Dietrich Bonhoeffer, dove è scritto: «Sono fratello dell’altro solo per ciò che Gesù Cristo ha fatto per me e in me; l’altro mi è divenuto fratello per ciò che Gesù Cristo ha fatto per lui e in lui. Solo per mezzo di Cristo siamo fratelli». E poco oltre afferma: «Chi ama il proprio sogno di comunione cristiana più della comunione cristiana effettiva, è destinato ad essere un elemento distruttore di ogni comunità cristiana, anche se è personalmente sincero, serio e pieno di abnegazione». Così si arriva a capire che «proprio il momento della grande delusione nei confronti del fratello diventa per me un impareggiabile momento di salvezza, che mi fa capire fino in fondo che sia lui che io non possiamo vivere in nessun modo delle nostre parole e azioni, ma solo dell’unica parola e azione che ci unisce nella verità, cioè la remissione dei peccati in Gesù Cristo» (ed. Queriniana, Brescia 1991, p. 21-23 passim).

L’amore precede la fede

La seconda lettura, da 1Pt 1,3-9, è una preghiera di benedizione, probabilmente un’omelia battesimale, che esalta la nuova condizione di “vita risorta” che ci è stata donata nel battesimo, nel quale misticamente diventiamo carne della carne di Cristo: viene cioè innestata in noi quella radice che è l’origine e la ragione del nostro vivere in comunione.

È esattamente quello che abbiamo appena sentito nelle parole di Bonhoeffer, dove ci è stato ricordato che la base della nostra fraternità non è quello che possiamo fare di utile l’uno per l’altro, ma quello che Cristo ha “già fatto” per tutti e due, qualcosa che è sicuro e stabile, non certo dipendente dalla nostra volubilità, e che neanche può essere oscurato dai nostri fallimenti.

Il testo di Pietro è un canto lirico di gratitudine, di fiducia, di gioia e di lode: «mediante la risurrezione di Cristo, siamo stati rigenerati per una speranza viva, un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce»! Ed è la stessa potenza di Dio che ci “custodisce”, verbo decisivo che echeggia le parole rivolte da Gesù ai discepoli nell’ultima cena, allora una promessa, ora una realtà. Neanche le prove dovrebbero logorare questa fiducia, perché servono a “purificarci”, come si fa con l’oro, attraverso il fuoco.

E qui veniamo all’affermazione che diventerà il soggetto di una ulteriore beatitudine nel racconto evangelico che segue: «Voi lo amate, pur senza averlo visto, e ora, senza vederlo, credete in lui». Si noti come, forse un po’ a sorpresa, l’amore precede la fede, perché lo scatto del cuore, in ogni buona relazione, anticipa la mente e la sostiene, come dice molto bene la volpe al Piccolo principe: «L’essenziale è invisibile agli occhi; si vede bene solo con il cuore».

L’incontro con Tommaso

Nel quarto vangelo, dopo l’incontro personale con Maria di Magdala, la sera dello stesso giorno, il Risorto appare al gruppo dei discepoli (Gv 20,19-31) ai quali la stessa Maria aveva annunciato: «Ho visto il Signore» e ciò che le aveva detto. La notizia, però, pare non aver cambiato niente: i discepoli stanno chiusi per paura dei giudei.

L’iniziativa è di Gesù, e in quel momento i discepoli appaiono solo come dei recettori passivi. Il Gesù che sta davanti ai loro occhi è lo stesso di prima, e mostra mani e fianco che portano ben visibili le tracce della passione sofferta, ma non è più lui, perché ora le porte chiuse non sono più un ostacolo, come non lo è stata la pietra del sepolcro.

E in quelle mani e in quel fianco, in quelle ferite, ci sono altre “porte” che mostrano il suo amore e il suo cuore: è come se il suo corpo si aprisse per fare uscire dalle mani la misericordia, e per accogliere tutti nel cuore, che Giuliana di Norwich, guidata da Dio, vede come un giardino, un nuovo Eden, «un luogo bello e delizioso, largo abbastanza da contenere tutta l’umanità salvata perché vi riposasse nella pace e nell’amore» (Una rivelazione dell’amore, Milano 2015, c. 24, p. 188).

E il dono che Gesù è venuto ad offrire si riassume in una “pace” che è anzitutto e soprattutto misericordia e perdono. Anche per questo la domenica odierna è qualificata come «della divina misericordia».

Ma il vangelo di oggi parla di un’altra apparizione, dove compare uno che era assente dalla prima: Tommaso. Dobbiamo pensare che anche lui, come i due di Emmaus, aveva lasciato la comunità perché la sua speranza era andata delusa? È possibile. Per quale ragione, se il caso è questo, è poi tornato nel gruppo? Possono essergli arrivate alle orecchie voci che raccontavano dell’apparizione del “primo giorno”. Non ci è dato saperlo.

Sta di fatto che, ritrovando gli altri discepoli, gli ripetono quello che a loro aveva detto Maria di Magdala. Ma come gli altri non avevano creduto a Maria, lui non crede agli altri. Ancora una volta al centro vengono le ferite di mani e piedi, che sono ormai diventate i “segni caratteristici” dell’identità di Gesù.

Otto giorni dopo il primo, si ripete la scena, e ancora una volta l’iniziativa parte da Gesù, che invita Tommaso a rendersi conto di persona di quello che ora vede con i suoi occhi. È difficile, rileggendo la scena, sottrarsi al ricordo di quanto ne ha fatto il Caravaggio, dove, allo sguardo placido e benevolo di Gesù, fa da contrasto l’avidità di quello di Tommaso e la curiosità, e insieme la cautela, con cui cerca di infilare il suo dito nella piaga del costato.

Che l’abbia davvero fatto non è detto: non era ormai più necessario, perché l’apostolo prorompe nella più chiara e decisa confessione di fede che si conosca. Da qui il commento del Signore: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». Gesù non è andato a cercare o a inseguire Tommaso; ha preferito che fosse lui a cercarlo perché imparasse che il luogo privilegiato della sua presenza è la sua comunità.

C’è di sicuro nel cammino di fede una dimensione personale, ma se anche il percorso comincia con un’esperienza del singolo, questa ha come traguardo e come sede di crescita l’esperienza della comunità, in una o più delle tante forme in cui questa prende corpo. E così si ritorna daccapo, al quadretto idillico dipinto da Luca, dove il nostro rapporto con Gesù e la sua comunità è chiamato a trasformare il sogno in realtà.

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