Gesù appare mentre si parla di lui
I racconti degli incontri con il Risorto mirano a tracciare un cammino di fede dopo la scomparsa fisica di Gesù. A Pasqua ci si era chiesti “dove” incontrarlo ora, e la risposa è stata negli scarti e nei margini. Domenica scorsa, alla luce di un’assenza, il problema era se, per trovarlo, fosse più importante il vedere o il credere.
Come sempre nel tempo pasquale, l’ordine delle letture anche oggi trova la sua base e il suo centro nell’evento narrato dal racconto evangelico, mentre le prime due descrivono le conseguenze prodotte nei discepoli da quegli incontri con il Risorto che hanno sconvolto la loro vita.
A differenza delle prospettive di Marco e Matteo, che mettevano al centro la Galilea come centro logistico e teologico dell’incontro con il Risorto, Luca, secondo la sua prospettiva scelta fin dall’inizio del suo vangelo, focalizza la sua attenzione su Gerusalemme. Se la Galilea significava la ripresa come ritorno alle origini della storia di Gesù, qui la città santa, con quello che vi è accaduto, significa il luogo che è rischioso abbandonare. Come nel primo caso, così anche qui, il “luogo” non è tanto o solo un territorio fisico, quanto piuttosto un “paesaggio della memoria”, che è necessario coltivare con assiduità, ciò che facciamo soprattutto nell’eucaristia domenicale.
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Comincio subito a mostrare il senso che assume per noi quella storia, citando la prima strofa di un Inno di Didier Rimaud, Regarde où risquons d’aller, entrato nell’edizione francese della Liturgia delle Ore per la sera di Pasqua, che si può trovare facilmente in Internet in varie esecuzioni musicali. Così si apre la storia tradotta in preghiera: «Guarda dove rischiamo di finire / se voltiamo le spalle / alla città dove hai sofferto. / Lenta è la Pasqua agli occhi di carne / dei tuoi boia. / Spiegaci il libro aperto dal colpo della lancia».
È per evitare tale “rischio” che viene qui proposta questa riflessione, al centro della quale sta l’inizio del vangelo di oggi, che conclude l’episodio dei due di Emmaus. Questi raccontano quello che è loro capitato «sulla via», e come il riconoscimento del viandante anonimo, quando erano seduti a mensa, li abbia fatti tornare in fretta a Gerusalemme. E qui abbiamo la frase chiave della liturgia odierna: «Mentre parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”». La connessione ha una rilevanza enorme: quando si parla di Gesù, lui è in mezzo a noi!
Se lo si fosse dimenticato, è il caso di tornare a rileggere il n. 7 della Sacrosanctum concilium per ritrovare i vari modi della presenza di Cristo nella liturgia.
Il Cristo “doveva” soffrire
Nella prima lettura (At 3,13-15.17-19) Pietro spiega al “popolo” perché abbia potuto guarire lo storpio e in nome di chi. Il discorso è di grande rilievo, perché nello spirito della Pentecoste serve a dilatare ciò che gli apostoli avevano compreso nel loro piccolo gruppo a una folla che rappresenta, simbolicamente tutta l’umanità, un discorso privato che diventa “cattolico”, cioè universale, almeno nella destinazione, un annuncio che sarà nei secoli la missione della Chiesa.
Sono due i punti da sottolineare. Il primo riguarda Pietro che si rivolge ai suoi uditori senza mezzi termini denunciando il misfatto: «Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni». Ma poi – ed è il secondo punto –, quasi ricordando il perdono invocato da Gesù sui suoi crocifissori «perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34), prosegue dicendo: «Ora fratelli, io so che avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire».
Discorso in sé stupefacente: non solo perdono per gli uccisori, chiamati peraltro “fratelli”, ma l’inserimento del loro crimine nel “piano di Dio”, espresso in quel “doveva”, “bisognava”, “era necessario” che ritorna costante sia nelle profezie sia nel racconto della passione. Il verbo indica che l’evento non è stato una fatalità sfuggita di mano, ma rientra nel piano di Dio, che a noi non è dato ora di conoscere, ma questo mistero non deve mettere in crisi la nostra fede.
Giuliana di Norwich l’ha detto bene: «Il peccato (termine in cui racchiude ogni forma di male) è inevitabile, ma tutto sarà bene». Conta, ovviamente, nel discorso di Pietro, il punto d’arrivo, che chiede di riconoscere l’errore commesso, convertirsi e cambiare vita, perché il perdono non è dato per seppellire tutto sotto un tappeto, ma per offrire una nuova possibilità e costituire uno stimolo a cambiare mentalità.
Anche Gesù è Paraclito
Il discorso prosegue nella seconda lettura (1Gv 2,1-5a), dove si ripete l’invito a non peccare, ma si aggiunge significativamente: «Se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paraclito presso il Padre, Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati, non soltanto per i nostri, ma per tutto il mondo».
Il Paraclito è il nome dato sia a Gesù sia allo Spirito (l’altro Paraclito: Gv 14,16), ed è uno che, come dice l’etimologia, “sta appresso se viene chiamato”, “soccorre e difende”, e questo ci rassicura circa un perdono sempre disponibile. Ma se il perdono sistema le cose e ci rimette in cammino, ciò che conta è seguire la retta via, che è indicata nel “conoscere” Gesù e cercare di diventare come lui, «osservando i suoi comandamenti».
La croce, insuperabile prova d’amore
Come si è detto, il vangelo (Lc 24,35-48) è la continuazione del brano dei due di Emmaus, e mostra la conseguenza del loro ritorno a Gerusalemme con il rientro nella comunità che avevano lasciato, delusi dall’esito fallimentare della vicenda di Gesù in cui avevano creduto.
Non ho proprio capito perché, per risparmiare due righe (!) il Lezionario preveda di poter omettere l’incipit del brano che invece è cruciale per segnalare la connessione di ciò che si sta per raccontare con quanto è avvenuto sulla strada di Emmaus e attorno alla mensa durante la sosta alla locanda.
La novità dell’incontro odierno è che avviene non più con singoli o con un piccolo gruppo di persone, ma Gesù appare alla comunità riunita, gli «Undici e quelli che erano con loro».
La reazione – come si poteva immaginare – è lo spavento e la sensazione di trovarsi davanti a un fantasma. Per risposta Gesù, come aveva fatto con Tommaso, invita a toccarlo, attirando in particolare l’attenzione sulle ferite, che diventano così il marchio necessario della sua passione e morte.
Ma non basta. La novità è che Gesù propone un’altra verifica se possibile ancora più corposa, già in qualche modo anticipata a Emmaus: sedersi a mensa e mangiare con lui.
La cosa mi rimanda alla seconda strofa dell’Inno di Didier Rimaud citato sopra: «Come venire a te se si fa tardi / se tu non vieni sulle nostre strade? / Non venir meno ai pellegrini, ma siediti con noi: / la tavola è già pronta per il pane, / e per la coppa». E qui Gesù ritorna di nuovo su quel “bisogna” già menzionato, perché tutto quello che è scritto in Mosé, nei Profeti e nei Salmi, in pratica tutta la Scrittura, deve essere compiuto.
Da dove arriva questa necessità? È noto che esistono diverse teorie teologiche sul perché si esigeva un tale sacrificio: pagare un prezzo per riscattare (il verbo che ha dato origine al termine “redenzione”, che significa “ricomprare”) l’uomo dai diritti che, a causa del peccato, il diavolo aveva su di lui; riparare l’infinità del peccato con l’infinità del sacrificio ecc.
Trovo più convincente la teoria del francescano Duns Scoto (1265-1308), per il quale la ragione unica e vera è stata mostrare fino a dove poteva arrivare l’amore di Dio per noi.
E la croce, alla fine, è una insuperabile prova d’amore, rivolta non tanto alle idee quanto alle emozioni, la compassione innanzitutto, che i predicatori medievali usavano volentieri nelle prediche per invitare alla conversione. Un esempio è questa lirica inglese del XII secolo: «Atroci ed aspre furon le mie pene, / mia madre a lungo vi pose mente: / rifletti uomo, prima di peccare, / al mio patire per l’umanità: / per la mia dura morte devi cessar dal male».
Una strofetta essenziale, facile da memorizzare, estratta da una letteratura torrenziale sullo stesso tema.
Fonte – per gentile concessione di Settimana News | Commento a cura di Nico Guerini