Nico Guerini – Commento al Vangelo di domenica 15 Marzo 2020

Le prime due domeniche di quaresima possono essere lette come una duplice introduzione alla spiritualità di questo tempo liturgico, consacrato – lo si ricordi – a tornare ad agitare le acque del nostro battesimo per impedire che diventino uno stagno di acque morte.

L’inizio ci ha detto come, nella nostra condizione di creature deboli e handicappate, abbiamo bisogno di una continua lotta contro il male e di un costante allenamento per edificare in noi abitudini buone; la seconda domenica ci ha presentato nella Trasfigurazione l’obiettivo di realizzare giorno per giorno in noi la bellezza di quella “nuova creatura” della quale il battesimo ha instillato in noi la radice, e questo mediante il fascino che deriva dalla bellezza del traguardo, e la consolazione di sapere che in questo percorso il Risorto ci ha preceduto e ci accompagna.

Ora, con le altre tre domeniche si entra decisamente nel percorso catecumenale di riscoperta del nostro battesimo mediante tre storie che hanno come tema centrale l’acqua (III, la Samaritana), la luce (IV, il cieco nato), la vita (V, Lazzaro). Sono pagine che la tradizione antica ci ha consegnato (il rito ambrosiano le fa leggere tutti gli anni, e la cosa, volendo, e se si ritiene opportuno, può essere fatta anche nel rito romano) proprio come ingredienti di base di un percorso catecumenale.

L’acqua è l’elemento più noto e più qualificante del battesimo. L’elemento ha più di un significato. Quello più noto è il suo potere di lavare e pulire, e temo che, per tanti, sia l’unico che viene in mente, anche perché la catechesi di anni passati insisteva molto sulla “macchia” del peccato originale, anche se poi alcuni erano portati a chiedersi: ma cosa mai ha fatto di male un neonato per aver bisogno di essere purificato? Domanda più che legittima, che però proveniva da una catechesi mutila e riduttiva.

Che questa sia una visione parziale delle cose, e neanche la più importante, lo spiega bene Pietro nella sua prima Lettera, che è intesa dagli esegeti come un’omelia battesimale, là dove, ricordando le otto persone che nel diluvio furono salvate per mezzo dell’acqua, scrive: «Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza in virtù della risurrezione di Gesù Cristo» (1Pt 3,21).

La liturgia di oggi, per esempio, vede nell’acqua principalmente un elemento che disseta, e che come tale è necessario alla vita. A un livello superiore metaforico la sete è simbolo del “desiderio” che ci abita dal principio, a partire dai bisogni di carattere fisico fino a quelli più elevati di carattere morale e spirituale. Questo è il tema della liturgia di questa domenica.

“Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?”

La cosa è chiara fin dalla prima Lettura (Es 17,3-7), dove, di fronte al popolo che rischia di morire di sete nel deserto, Dio, per mezzo di Mosè, fa scaturire acqua dalla roccia così che il popolo possa bere e salvarsi. L’episodio dice anche altre cose, e il ricordo con cui viene consegnato alla storia, curiosamente non riguarda il miracolo dell’acqua, quanto piuttosto il retroterra che lo precede, e cioè la “mormorazione” del popolo assetato per la mancanza di acqua, che se la prende con Mosè.

Il lamento è feroce: il condottiero, che già tanti ostacoli e resistenze aveva dovuto sopportare da parte della sua gente che egli intendeva liberare dalla schiavitù, si sente dire ora che egli li avrebbe portati attraverso il deserto per «farli morire tutti», uomini e bestiame!

Il poveretto è sconvolto, e si rivolge al Signore, al quale pure risaliva l’iniziativa, affidata a Mosè, di far uscire il popolo dall’Egitto, con un “grido” che esprime la paura di essere “lapidato” da quegli stessi che egli voleva salvare.

Dio risponde, chiedendogli che, con lo stesso bastone con cui aveva aperto le acque del Nilo, percuota ora la roccia per farne sgorgare acqua: detto fatto.

Ma – come ho appena sottolineato – al redattore biblico interessa sottolineare la mancanza di fede del popolo, il che gli fa concludere il racconto con la parola che sfida Dio, chiamandolo direttamente in causa: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?».

Quante volta capita anche a noi, davanti a una difficoltà, una malattia, una prova che intralcia il nostro benessere, di fare, e farci la stessa domanda, che, per quanto istintiva e legittima nei confronti di un Dio nel quale crediamo perché è buono, finisce per mettere in crisi proprio questa fede.

Non stupiamoci di questo: la cosa non va letta automaticamente come una “perdita di fede”, ma piuttosto come un momento di passaggio, nel quale possiamo imparare come pure ostacoli e prove fanno parte di una misteriosa pedagogia di Dio proprio per educarci a fare tesoro anche delle difficoltà, magari perché, per esempio, ci aiutano ad essere capaci di compassione verso le difficoltà degli altri.

Questione di fede

Il brano di Paolo (Rm 5,1-2.5-8) è un po’ una risposta alla mormorazione, che è poi in effetti una vera protesta, del popolo nel deserto. Se il loro peccato è stato una decisa mancanza di fiducia, o si potrebbe dire di “fede”, nei confronti del Dio di Israele, Paolo spiega quale possa essere il fondamento di una fede che ci deriva da una “grazia” inoppugnabile, quella che ci rende «saldi nella speranza della gloria di Dio». Qual è questa grazia? La risposta è breve e chiara: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».

Non c’è molto da aggiungere: un amore così totalmente gratuito, che non aspetta né la nostra bontà né i nostri meriti, per dimostrarci il suo amore, non può diventare improvvisamente “tirchio” quando si tratta di venire in nostro aiuto.

Certo, rimane sempre un problema aperto: cosa pensare quando Dio non risponde alle nostre domande, o ci manda prove che noi riteniamo immeritate e insopportabili? Non c’è risposta se non abbandonarci alla fiducia nel Signore, credere a quella «speranza che non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Parole? Sì, ma sono le parole della fede, che almeno ci portano a pregare Dio perché ci sostenga nella nostra debolezza, perché non ci abbandoni nella tentazione.

Un doppia sete

Con il vangelo della samaritana (Gv 4,5-42) entriamo decisamente nel tema dell’acqua che disseta, da tenere costantemente in connessione con la logica del desiderio. Il brano – come quelli che seguiranno nelle due domeniche successive – è ricco di innumerevoli suggestioni, impossibili da cogliere nello spazio di un’omelia. Sarebbe certamente il caso di prendere queste tre mirabili pagine di Giovanni per farne materia di una lectio divina settimanale con le persone più sensibili. Quale migliore programma di catechesi quaresimale?

Qui mi limito a segnalare alcune cose in linea con quanto detto sin qui. Anzitutto ad aver sete è Gesù. Lo dirà anche sulla croce. In ambedue i casi si tratta certo di una sete materiale, ma sottointesa c’è un’altra sete, quella del suo spirito, a marcare il suo “desiderio”.

Il dialogo che segue, attraverso la ben nota tecnica del quarto vangelo, è uno zigzagare tra questi due significati della sete: il desiderio di Gesù di aprire la mente e il cuore della donna di Samaria, e la donna che è portata gradualmente a riconoscere gli errori nelle relazioni con cui ha cercato di estinguere la sua sete di amore.

Paradossalmente, colei che offre l’acqua del pozzo si accorge che è lei ad aver bisogno di un’altra acqua, quella che sazia il desiderio del cuore; mentre Gesù, che chiede da bere alla donna, si rivela in realtà come colui che può dare la vera acqua che disseta, quella “viva”, quella che diventa «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».

Il problema religioso che la donna pone a Gesù per assicurarsi che egli sia davvero un profeta, cioè su “dove” si debba adorare, provoca una risposta che è una delle affermazioni più liberanti del vangelo, e che travolge di netto la convinzione che fondava la separazione, per non dire l’opposizione, che metteva da tempo in conflitto ebrei e samaritani. Sono parole ben note: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità». Il problema viene sottratto a un luogo fisico per essere ricondotto a quell’altro luogo dove abita Dio: il cuore.

Dopo di che, rispondendo alla domanda della donna, Gesù dichiara di essere lui il Messia atteso. Il cammino di fede è giunto al traguardo, e la donna diventa sul momento lei stessa apostola. Si legga con attenzione la frase «in spirito e verità», da non intendere come qualcosa di aereo, pensando di poter fare a meno di luoghi e riti. Non è così. Il punto è un altro. Per come siamo fatti, abbiamo anche bisogno di luoghi e riti per celebrare la nostra fede, ma a condizione che questi servano come utile tramite che ci riconduca di continuo alla vita interiore.

Spirito e Verità sono altri nomi di Dio, dove Spirito indica anzitutto “amore”, e Verità indirizza verso la “coerenza” tra ciò che facciamo e l’amore in cui crediamo. È cioè quel «culto spirituale» che consiste nell’offrire i nostri corpi come «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1). Che è poi ciò che ha fatto Gesù nell’ultima cena consegnando se stesso, e che in ogni eucaristia ci chiede di “rifare” in memoria di lui.

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