Il brano evangelico ci riporta la guarigione di un sordomuto, o meglio di un uomo affetto da grave balbuzie (la guarigione infatti consisterà nel parlare correttamente). Gesù opera questa guarigione nella regione della Decapoli, una terra pagana oltre i confini di Israele. Marco sembra voler sottolineare che il Vangelo non è riservato solo agli appartenenti al popolo di Israele, ma che tutti hanno diritto ad incontrare la misericordia di Dio che libera e salva. Anche quel sordomuto che viene presentato a Gesù perché lo guarisca. Gesù lo porta in disparte, lontano dalla folla, quasi a sottolineare la necessità di un rapporto personale, diretto, intimo, tra lui e il malato. I miracoli, infatti, avvengono nell’ambito di un’amicizia profonda e fiduciosa in Dio.
Gesù, amico degli uomini, soprattutto dei deboli, guarda con affetto e misericordia quell’uomo. Forse pensava anche a questo episodio l’apostolo Giacomo quando nella sua lettera esorta i cristiani ad avere un’attenzione prioritaria ai poveri e ai deboli. È vero che Dio non fa preferenze di persone. Ma è altrettanto vero che il suo cuore è come sbilanciato verso i poveri e i deboli. Questi ultimi sono i primi nel Vangelo. Così deve essere per ogni credente e per ogni comunità cristiana. Gesù ha accolto quel sordomuto. E sta con lui, in disparte. Seguendo un’antica consuetudine dei guaritori, Gesù “gli pone le dita nelle orecchie e con la saliva gli tocca la lingua”. Quindi, nota l’evangelista, Gesù alza gli occhi al cielo ed emette un profondo sospiro. È la preghiera di Gesù che unisce la fiducia nel Padre e la compassione per quell’uomo malato. Aveva fatto la stessa cosa anche prima della moltiplicazione dei pani, quando si commosse sulla folla stanca e sfinita e poi “alzò gli occhi al cielo” (Mc 6,41).
Gesù sente un sussulto nel petto, una forza che viene da dentro, e dice al sordomuto: “Effatà!”, ossia “Apriti!”. È una sola parola, ma sgorga da un cuore pieno dell’amore di Dio. “Subito nota l’evangelista si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente”. Tornano in mente le parole del centurione: “Signore, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Mt 8,8). E riecheggia la forte esortazione di Isaia al popolo d’Israele schiavo in Babilonia: “Dite agli smarriti di cuore: Coraggio! Non temete! Ecco il vostro Dio, viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi”. Quel giorno, in quell’angolo sperduto dell’attuale Libano del sud, “Dio era venuto a salvare” quell’uomo dalla sua malattia. La forza di Dio però non si manifestava con clamore e strepito. Ci fu solo “una” parola. Sì, perché delle parole evangeliche ne basta una sola per cambiare l’uomo, per trasformare la vita; quel che conta è che sgorghi da un cuore appassionato come quello di Gesù e che sia accolta da un cuore bisognoso come quello del sordomuto. Gesù, potremmo dire, non si rivolge all’orecchio e alla bocca ma all’uomo intero, all’intera persona. È al sordomuto, non al suo orecchio, che dice: “Apriti!”. Ed è l’uomo intero che guarisce “aprendosi” a Dio e al mondo.
È noto lo stretto legame che c’è tra la sordità e il mutismo. La guarigione richiede che ambedue gli organi vangano sanati, non è sufficiente che uno solo sia guarito. Potremmo dire che questo è vero anche nel campo della fede cristiana. C’è bisogno anzitutto che l’orecchio (l’uomo) si “apra” all’ascolto della Parola di Dio. Poi la lingua si scioglie per parlare. Quell’uomo, dopo aver ascoltato, poté parlare correttamente. È stretto il legame tra ascolto della parola e capacità di comunicare. Chi non ascolta resta muto, anche nella fede. Spesso, commentando le Scritture, si parla della decisività dell’ascolto della Parola di Dio per il credente. Questo miracolo ci fa riflettere altresì sul legame che si instaura tra le nostre parole e la Parola di Dio.
Spesso noi non poniamo sufficiente attenzione al peso che hanno le nostre parole, al valore che ha il nostro stesso linguaggio. Eppure attraverso di esso esprimiamo noi stessi molto più di quanto crediamo. E non di rado sprechiamo le nostre parole o, peggio, le usiamo male. L’apostolo Giacomo al capitolo terzo della sua Lettera ci ricorda: con la lingua noi “benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. Dalla stessa bocca escono benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei!” (3,9-10).
Questo miracolo ci fa comprendere il bisogno che abbiamo di ascoltare per poter parlare, anzi per poter parlare correttamente. Sì, questo è il miracolo del parlare bene, ossia della guarigione da un parlare diviso e cattivo, quale Giacomo stigmatizza. E chi di noi non deve chiedere al Signore di liberarlo da un parlare troppo scorretto, talora persino violento e cattivo, bugiardo e malevolo? Spesso, troppo spesso, dimentichiamo la forza costruttrice o distruttrice della nostra lingua. È necessario perciò anzitutto ascoltare la “Parola” di Dio perché essa purifichi e fecondi le nostre “parole”, il nostro linguaggio, il nostro stesso modo di esprimerci.
Per i cristiani si tratta di una responsabilità gravissima, perché l’unico modo che abbiamo di compiere la comunicazione del Vangelo è attraverso il bagaglio delle nostre “parole”. Sono povere, ma incredibilmente efficaci; possono trasportare le montagne, se riflettono la Parola. Gesù dice: “di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato” (Mt 12,36-37).
Per gentile concessione di mons. Paglia. Commento tratto dal suo sito.
Qui tutti i commenti al Vangelo delle domeniche precedenti di mons. Vincenzo Paglia