Il Vangelo di questa domenica ci riporta con Gesù a Nazareth. La sua fama, ormai nota ovunque, sia in Galilea che in Giudea, raccolse tanti cittadini di Nazareth ad ascoltarlo nella sinagoga. Tutti restarono stupiti delle sue parole. E si ponevano anche la domanda giusta, quella che dovrebbe aprire alla fede: “Da dove gli vengono queste cose?”. Se avessero ricordato le antiche parole rivolte a Mosè: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18,15), avrebbero accolto non solo le parole ma lo stesso Gesù come inviato di Dio.
Purtroppo, gli abitanti di Nazareth, che aspettavano gesti prodigiosi dal loro concittadino, si arrestarono davanti al carattere ordinario della sua presenza. Non era così che essi immaginavano un inviato di Dio; pensavano che un profeta dovesse avere i tratti della straordinarietà e del prodigioso, o comunque quelli della forza e della potenza umana.
Gesù, invece, si presentava come un uomo normale. Tanto che si dicevano l’un l’altro: “Non è costui il falegname?”. Essere carpentiere non dava una particolare reputazione. Nel libro del Siracide si legge: “Essi non sono ricercati per il consiglio del popolo, nell’assemblea non hanno un posto speciale, non siedono sul seggio del giudice, non conoscono le disposizioni della legge. Non fanno brillare né l’istruzione né il diritto, non compaiono tra gli autori di proverbi; ma essi consolidano la costruzione del mondo, e il mestiere che fanno è la loro preghiera” (38,32-34).
La famiglia di Gesù era una famiglia ordinaria, né ricca né povera. Né sembrava che godesse di particolare stima da parte dei cittadini di Nazareth. “Non è il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”, continuavano a chiedersi gli ascoltatori. Insomma, per i nazareni Gesù non aveva assolutamente nulla che potesse distinguerlo da loro. Gli riconoscevano certamente una notevole sapienza e una rilevante capacità taumaturgica, ma la vera questione era che essi non accettavano che egli parlasse con autorità sulla loro vita sino a chiedere che cambiassero i loro comportamenti. Ecco perché la meraviglia si trasformò subito in scandalo. “Ed era per loro motivo di scandalo”, aggiunge l’evangelista. Quel che appariva all’inizio un trionfo divenne presto un fallimento.
Ma qual era lo scandalo? Gli abitanti di Nazareth, potremmo dire, erano orgogliosi di avere un concittadino famoso; era un vanto che Gesù passasse per un oratore travolgente, che facesse prodigi e che portasse lustro alla loro cittadina. Una cosa sola non riuscivano a sopportare: che un uomo come lui, che tutti conoscevano benissimo, potesse però avere autorità su di loro, ossia pretendere in nome di Dio un cambiamento della loro vita, del loro cuore, dei loro sentimenti. Tutto ciò non potevano accettarlo da uno di loro. Eppure è questo lo scandalo dell’incarnazione: Dio agisce attraverso l’uomo, con tutta la pochezza e la debolezza della carne; Dio non si serve di gente fuori dal comune, ma di persone qualsiasi; non si presenta con prodigi o parole stravaganti, bensì con la semplice parola evangelica e con i gesti concreti della carità.
Il Vangelo predicato e la carità vissuta sono i segni ordinari della straordinaria presenza di Dio nella storia. L’apostolo Paolo scrive ai Corinzi: “I Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono” (1 Cor 1,22-25.27-28).
Sappiamo bene quanto poco sia accolta dalla mentalità comune (di cui tutti siamo figli) questa logica evangelica. Gesù a Nazareth ne fa esperienza diretta. E con amarezza nota: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Se il libro dei Vangeli potesse parlare, senza dubbio lamenterebbe la solitudine in cui spesso è relegato; e avrebbe da accusare “noi di casa” per le tante volte che lo spingiamo ai margini della vita, lasciandolo muto, perché non parli e non agisca. Gli uomini di Dio, i profeti, lo sanno bene. “Me infelice, madre mia! Mi hai partorito uomo di litigio e di contesa per tutto il paese!”, grida Geremia (15,10). Ed Ezechiele lo leggiamo nella prima lettura si sentì preannunciare lo stesso dramma: “Ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me”. Anch’essi, come Gesù, debbono spesso constatare il fallimento della loro parola.
Tuttavia il Signore aggiunge: “Ascoltino o non ascoltino perché sono una genia di ribelli sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”. Dio è fedele, sempre. La Parola non tace, e il Vangelo sarà sempre predicato. Chi lo accoglie e lo mette in pratica salva la sua vita.
Chi si comporta come gli abitanti di Nazareth, ossia chi non accetta l’autorità di Gesù sulla sua vita, impedisce al Signore di operare. Sta scritto che a Nazareth Gesù non poté operare miracoli; non è che non volle, “non poté”. I suoi concittadini volevano che operasse qualche miracolo, ma non avevano capito che non si trattava di fare prodigi o magie al servizio della propria fama. Il miracolo è la risposta di Dio a colui che tende la mano e chiede aiuto. Nessuno di loro la tese. Tutti semmai avanzavano pretese. Non è questa la via per incontrare il Signore.
Dio non ascolta l’orgoglioso. Volge invece il suo sguardo sull’umile e sul povero, sul malato e sul bisognoso. A Nazareth, infatti, Gesù poté guarire solo alcuni malati: appunto, quelli che invocavano aiuto mentre passava. Beati noi se, staccandoci dalla mentalità dei nazareni della sinagoga, ci mettiamo accanto a quei malati che stavano fuori e che chiedevano aiuto al giovane profeta che passava.
Per gentile concessione di mons. Paglia. Commento tratto dal suo sito.
Qui tutti i commenti al Vangelo delle domeniche precedenti di mons. Vincenzo Paglia