Nel Vangelo di questa domenica appare prima un pastore che chiama i suoi amici e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (v. 6); poi una donna di casa che va dalle sue amiche e le invita: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta” (v. 9). E, infine, un padre che chiama i servi e dice loro: “Portate qui il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita” (vv. 23-24).
Sono tre modi per esprimere lo stesso stato d’animo: la gioia di Dio quando ritrova i suoi figli che si erano smarriti. Vorrei immaginare la gioia di Dio che esplode in ogni santa Liturgia della domenica. Sì! Ogni domenica Dio ci ritrova e fa festa. E possiamo paragonare il Signore a quel padre della parabola che dall’alto della casa guarda verso le nostre strade e appena ci vede arrivare, come fece quel figlio che tornava, scende di corsa verso la porta per venirci incontro e abbracciarci.
E in effetti la santa Liturgia si apre con l’abbraccio di Dio: è il momento del perdono. Subito siamo rivestiti della misericordia: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi” (v. 22). E possiamo intonare l’inno di lode, il Gloria. Eppoi si apre il lungo colloquio con la Parola di Dio, interrotto dalla nostra lontananza. Viene quindi il banchetto eucaristico che, nutrendoci con il pane santo e il calice della salvezza, ci trasforma sino a renderci simili al Figlio prediletto.
Si potrebbe dire che la domenica è tutta qui: la festa dell’abbraccio di Dio, la festa della grande misericordia. Una misericordia che è raro trovare nel mondo, dove tanto spesso si incontra l’assenza del perdono e, ancor più, dell’amore. Tra di noi è normale l’affermazione di se stessi, la rivendicazione dei propri diritti e l’insensibilità al perdono. I due figli della parabola, il minore e il maggiore, sono ambedue gretti ed egoisti. Verrebbe da dire: “Povero padre con quei due figli!”.
Avevano tutto: il padre ricco e una casa grande; servi che li accudivano e possedimenti di cui godere. Avevano tutto, ma in comune. Preferirono la loro grettezza. “Padre – disse il figlio più giovane – dammi la parte del patrimonio che mi spetta” (v. 12). Davvero sciocco! Preferisce una parte al tutto. In quel giovane, come spesso in ognuno di noi, c’è il fastidio per quanto è comune; il fastidio di non essere padroni assoluti di se stessi e delle proprie cose. “Dammi quel che mi spetta!”.
È un triste ritornello quotidiano. Il giovane si allontanò da casa e visse da dissoluto. Nel contesto evangelico il termine “dissoluto”, più che un comportamento immorale, significa un vita sciolta (dissoluta) da ogni dipendenza, da quella del padre e della casa. Insomma vivere da dissoluto significa voler far da sé, senza ascoltare nessuno e senza dipendere da nessuno. Insomma, vivere da solo, lontano dal padre. Ma, comportandosi così, quel giovane si ritrovò a fare il guardiano di porci.
Ugualmente egoista fu il fratello maggiore. Non appena i servi gli riferirono il motivo della festa, si adirò contro il padre e non volle entrare. Rifiuta la festa e la misericordia; preferisce un capretto per lui e qualche amico al vitello grasso e alla tavola imbandita con il fratello e tutti gli altri. Sembra strano che non si lasci prendere da quella festa; ma così accade ogni volta che si vuole la festa solo per sé. Il Padre gli dice: “Tutto ciò che è mio è tuo” (v. 31). Ma quel figlio preferisce rimanere fuori, nervoso e triste; sembra incredibile, eppure è triste perché il padre ha organizzato una grande festa.
Questi due figli non sono lontani da noi; convivono nel cuore di ciascuno di noi, accomunati dalla stessa voglia di avere tutto per sé. Esattamente il contrario di quello che desidera il Padre. Ma la voglia di possedere, di avere solo per sé, come il Vangelo ci mostra, conduce alla tristezza, e spesso anche alla rovina. Quel che però alla fine conta è la capacità di rientrare in se stessi, di accorgersi della tristezza della propria condizione, di rialzarsi e ritornare alla casa del Padre.
È sufficiente solo ricordare queste parole evangeliche sulla misericordia di Dio che ci appare infinitamente più grande del nostro peccato. È proprio questo ricordo che ci dà la forza di rialzarci e riprendere il cammino verso il Signore. Troveremo non un giudice, ma un padre che ci viene incontro per abbracciarci.
La domenica è il giorno benedetto per tornare. La santa Liturgia ci viene incontro e sconfigge ogni nostra tristezza, ogni nostro peccato, ogni nostra chiusura. Lasciamoci prendere da questa festa e gustiamola. La domenica allarga il cuore, fa cadere i muri, fa aprire le porte della mente, fa vedere lontano verso il mondo, verso i poveri. La domenica è larga, come larga è la misericordia di Dio.
La domenica è ricca, non gretta; è piena di sentimenti, più bella dei nostri istinti banali e scontati. La domenica è il giorno santo in cui Dio ci rende uomini e donne più felici. Un antico inno, composto dal santo vescovo Giovanni Crisostomo, cantava: “Se uno è amico di Dio, goda di questa festa bella e luminosa. Chi ha lavorato e chi non l’ha fatto, chi è nella pace e chi è nel dolore, chi si è smarrito e chi è stato a casa, chi è appesantito e chi è sollevato, tutti vengano e saranno accolti. La santa Liturgia è festa, è perdono, è abbraccio di Dio per ognuno”. Così sia per noi oggi.
Per gentile concessione di mons. Paglia. FONTE
Qui tutti i commenti al Vangelo delle domeniche precedenti di mons. Vincenzo Paglia