«Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima» (Mt 10,28). L’evangelista Matteo, mentre riportava queste parole di Gesù, aveva probabilmente davanti agli occhi l’esperienza della sua comunità sottoposta a forti contestazioni. E voleva rassicurarla con le parole stesse di Gesù. Il Signore non abbandona mai i suoi discepoli. Anzi, chiunque spende la sua vita per il Vangelo riceve le consolazioni del Signore, soprattutto se deve affrontare difficoltà e prove. Non è mai stato semplice e lineare per la comunità cristiana predicare il Vangelo della croce e della resurrezione. Sant’Agostino ne La città di Dio scriveva che il discepolo «deve proseguire il suo pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio».
Ma cosa vuol dire per noi questa esortazione evangelica a non aver paura e a non temere gli uomini, dal momento che non viviamo in un tempo di persecuzione? Forse però è proprio qui il problema. È vero che la maggioranza dei cristiani non è perseguitata sebbene non manchino i martiri anche oggi e in diversi luoghi della terra ma è facile che molti vengano indeboliti nel cuore da una cultura che svuota i cuori dal di dentro. È facile che una mentalità narcisista ed egocentrica annacqui in maniera drammatica l’audacia e il coraggio di credere al Vangelo come forza di cambiamento e di salvezza.
Con grande sapienza, Albert Schweitzer, teologo e musicista protestante del secolo scorso che spese diversi anni della sua vita in un lebbrosario a Lambaréné, in Africa, amava ripetere che non si può privare il Vangelo del suo tratto di eroicità, potremmo dire della sua dimensione martiriale. E in effetti proprio quella cultura individualista che ha avvelenato persino la sensibilità religiosa porta a pensare anche la salvezza sul piano individuale, facendo perdere quella dimensione di salvezza di popolo che il Signore mostra nel Vangelo. Il martirio che il Vangelo richiede è la decisione di spendere la propria vita non per se stessi ma, appunto, per il Signore e per i poveri. Il beato Óscar Romero, in una omelia pronunciata per il funerale di un prete ucciso dagli squadroni della morte, diceva che il Concilio Vaticano II chiede a tutti i cristiani di essere «martiri», ossia di dare la propria vita per gli altri. E aggiungeva che ad alcuni come a quel sacerdote la cui bara stava davanti a tutti viene chiesta fino all’effusione del sangue, ma a tutti comunque di spenderla per gli altri.
È il cristianesimo di cui il mondo ha bisogno. Un cristianesimo rinunciatario, che non sa sperare con forza e determinazione per un mondo di pace, è privato della sua “eroicità” e svilito nella sua forza. La Parola di questa domenica ci esorta a non aver paura di seguire il Signore e di testimoniarlo con la vita. Talora è facile pensare che il Vangelo ci chieda una vita al ribasso, fatta magari di rinunzie, senza un reale interesse per noi, e alla fine inefficace per la società. Tutt’altro. Il discepolo che segue la via del Vangelo non si perde, Dio lo sostiene: «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!» Questa attenzione amorevole del Signore diviene anche compagnia nella battaglia per la comunicazione del Vangelo sino ai confini della terra. Geremia ci testimonia questa vicinanza: «Il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno» (20,11).
Ma la vittoria è possibile unicamente se moriamo all’amore per noi stessi e ci affidiamo alla forza del Vangelo.
Fonte – il sito web di mons. Paglia
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