“Passiamo all’altra riva”. Questo comando di Gesù ai discepoli, che apre il Vangelo di questa domenica, interroga in maniera particolare coloro che sono tentati dal fermarsi, dal rinchiudersi in se stessi, nel proprio orizzonte abituale. La narrazione evangelica ci fa intuire che la traversata non è affatto facile. Sembra iniziare di sera (lo fa pensare il sonno di Gesù). C’è una analogia con i nostri giorni: la caduta di orizzonti ideali, l’assenza di visioni nuove ci fa stare tutti nel buio, appunto, senza chiarezza di prospettive.
È perciò urgente che la nebbia si diradi e appaia un orizzonte nuovo, più grande. Solo obbedendo a Gesù è possibile andare oltre. È quel che fecero i discepoli obbedendo all’invito di Gesù a salire sulla barca e andare all’altra riva. Ma ecco che, poco dopo, si scatena una tempesta; un fenomeno frequente nel lago di Genezaret. I pescatori, in genere, fanno appena in tempo ad accorgersi della furia del vento che già l’imbarcazione è in balìa delle onde. La scena accennata dall’evangelista è emblematica.
La barca, bassa e con una capienza per circa dodici persone, è sballottata nella tempesta e Gesù dorme; gli apostoli si preoccupano sempre più e la loro paura cresce, mentre Gesù continua a dormire tranquillo. Tale atteggiamento di Gesù appare sconcertante ai discepoli. Sembra che a Gesù non importi nulla di loro, della loro vita, delle loro famiglie. Lo spavento cresce sempre più sino a che i discepoli svegliano Gesù e lo rimproverano: “Non t’importa nulla che moriamo?”. È certamente un grido di disperazione, ma possiamo leggervi anche la fiducia che essi hanno in quel maestro. È una richiesta forse un po’ rozza, ma contiene una speranza.
Anche la nostra preghiera talvolta è simile ad un grido di disperazione teso a svegliare il Signore. Quanti di noi sono colti dalla tempesta e non hanno altro a cui aggrapparsi se non il grido di aiuto, mentre sembra che il Signore dorma? Quel grido è vicino a tante situazioni umane, talora a popoli interi provati sino alla morte. Il sonno di Gesù può significare il trovarsi a suo agio tra i discepoli in quella traversata, ma certamente indica la sua piena fiducia nel Padre: sa che non abbandonerà nessuno. Prendere con noi il Signore vuol dire imbarcare la sua fiducia e il suo potere.
Al nostro grido si sveglia, si alza ritto sulla barca, e minaccia il vento e il mare in tempesta. Subito il vento tace e si fa bonaccia. Dio vince le potenze ostili che non permettono la traversata (a tale proposito va notato che nell’Antico Testamento la creazione viene descritta come un combattimento di Dio contro il mare, rappresentato come un mostro). L’episodio si chiude con una notazione singolare. I discepoli sono presi da una grande paura, e si dicono l’un l’altro: “Chi è dunque costui?”.
Il testo di Marco parla di paura più che di stupore. Ed è una paura più grande di quella che hanno sentito poco prima per la tempesta: non si identifica con l’angoscia, ma può accompagnarsi ad una completa fiducia nel Signore. Questa seconda paura, pur essendo forte come la precedente, ha però dei caratteri incisivi che penetrano fin nel profondo dell’anima. È il santo timore di stare alla presenza di Dio.
Sì, il timore di chi si sente piccolo e povero di fronte al salvatore della vita; il timore di chi, debole e peccatore, viene comunque accolto da colui che egli ha offeso e che lo supera nell’amore; il timore di non disperdere l’unico vero tesoro di amore che abbiamo ricevuto; il timore di non saper profittare della vicinanza di Dio nella nostra vita di ogni giorno; il timore di non disperdere il “sogno” di un nuovo mondo che Gesù ha iniziato anche in noi e con noi. È proprio questo timore il segno che ci fa comprendere di stare già sull’altra riva.
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Per gentile concessione di mons. Paglia. Commento tratto dal suo sito.
Qui tutti i commenti al Vangelo delle domeniche precedenti di mons. Vincenzo Paglia