mons. Vincenzo Paglia – Commento al Vangelo del 17 Luglio 2022

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Anche in questa domenica il Signore ci ha raccolti per condurci con lui verso Gerusalemme. È un viaggio diverso dai nostri; non siamo noi infatti a stabilire la meta e neppure l’itinerario. Non siamo noi i maestri e i pastori di noi stessi. In questo viaggio, che nelle domeniche ha come delle tappe, è il Signore che sta davanti a noi; è lui che guida i nostri passi, perché possiamo raggiungere la statura spirituale alla quale siamo chiamati.

Domenica scorsa la Liturgia ci ha fatti sostare accanto a quell’uomo mezzo morto ch’era stato abbandonato dal sacerdote e dal levita. E ci ha mostrato nel buon samaritano l’immagine vera del cristiano. Oggi, quasi a voler creare un dittico nel descrivere l’identità del discepolo, viene aggiunta un’altra immagine, quella di Maria seduta ai piedi del Maestro. L’evangelista Luca fa seguire immediatamente la scena di Marta e Maria a quella del buon samaritano. Volentieri ricordo un caro amico, Valdo Vinay, il quale amava ripetere che non era certo un caso la contiguità di questi due brani evangelici; anzi, a suo parere, essi vanno letti sempre uniti, perché rappresentano il “dittico” dell’identità del cristiano, che deve essere, nello stesso tempo, Buon Samaritano e Maria.

In queste due immagini sono, infatti, rappresentate le due dimensioni inseparabili della vita evangelica: la carità e l’ascolto della parola. Il Vangelo non prevede gli esperti della carità da una parte, e gli esperti della preghiera dall’altra. Ogni credente deve stare in ascolto di Gesù, come Maria e, nello stesso tempo, deve curvarsi sull’uomo lasciato mezzo morto lungo la strada, come fece il samaritano. Non esiste opposizione, quindi, tra carità e preghiera, tra “vita attiva” e “vita contemplativa”; quella che il Vangelo stigmatizza è piuttosto l’opposizione tra il tirar via e il fermarsi davanti a chi ha bisogno; tra l’essere presi totalmente dalle proprie cose e il lasciarsi trascinare dall’ascolto del Vangelo. È totalmente estranea al Vangelo quella contemplazione che ignora la pena quotidiana, come anche una vita presa tutta dai propri problemi e dai propri affanni.

Ma fermiamoci all’episodio evangelico di Marta e Maria. La loro casa si trovava in Betania, un sobborgo di Gerusalemme. Gesù amava fermarsi da loro: vi trovava calore e affetto. Di fronte alle gravi e difficili dispute che lo aspettavano a Gerusalemme, e soprattutto di fronte all’ostilità sorda e cattiva che spesso vi riscontrava, si può comprendere quanto fosse consolante per lui trovare una casa ove essere accolto e dove poter riposare.

E per lui, che non aveva neppure una pietra come guanciale ove posare il capo, quella casa era davvero un rifugio desiderato. L’amicizia di Lazzaro, di Marta e di Maria lo sosteneva nella sua faticosa missione evangelizzatrice. Di qui si può comprendere il pianto di Gesù di fronte alla morte dell’amico Lazzaro. Ebbene, in questa casa di Betania – ma non dovrebbe essere così per tutte le case dei discepoli? – sembra ripetersi la stupenda scena descritta nel libro della Genesi (18,1-10), propostaci in questa domenica come prima lettura.

Si tratta dell’episodio di Abramo che accoglie sotto la sua tenda tre pellegrini. A tutti noi è noto il capolavoro del santo pittore russo, Rublev, che ha immortalato questa scena con i tre angeli raccolti attorno alla mensa preparata da Abramo. Aveva ben in mente, il pittore russo, quanto è scritto nella Lettera agli Ebrei: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (13,2). Qui, a Betania, i tre, con la loro squisita ospitalità, hanno accolto l’angelo di Dio, il Maestro di Nazareth. Si potrebbe dire che nella scena di Marta e Maria, che accolgono Gesù, si porta al suo culmine l’accoglienza di Abramo.

Il Vangelo non vuole sminuire i gesti concreti di Marta, l’accoglienza è fatta anche di questo; come pure non vuole fare delle due sorelle i simboli di due stati di vita. Il problema sta nella profondità dell’accoglienza. Marta è tutta presa dai molti servizi; preoccupata e agitata per molte cose, al punto da dimenticare il senso stesso di quello che stava facendo, ossia l’accoglienza a Gesù. Pure nella parabola del buon samaritano. Potremmo dire che il sacerdote e il levita sono talmente presi dai loro compiti anche religiosi, che dimenticano l’essenziale del loro servizio, la compassione di Dio. Come sta scritto: “Misericordia voglio, non sacrifici” (Os 6.6).

Nel caso di Marta, è talmente evidente il distorcimento dei fini che, invece di pensare a Gesù con affetto e premura, si lascia prendere dai nervi, nel vedere Maria seduta ad ascoltare, e scatta verso Gesù rimproverandolo: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire?” (v. 41). Gesù, con calma e affetto, le risponde che lei si agita e si preoccupa per troppe cose, mentre una sola è quella veramente necessaria: l’ascolto del Vangelo. Questa è la cosa migliore, perché cambia il cuore e la vita.

Chi ascolta la Parola di Dio e la custodisce sarà un uomo e una donna di misericordia e di pace. Maria, vera discepola di Gesù, ha scelto questa parte, la migliore: il primato assoluto, nella propria vita, dell’ascolto di Gesù. Se lo ascolteremo, vivremo come lui, e saremo salvi.


Per gentile concessione di mons. Paglia. FONTE