Proprio il contrario del Dio trasmessoci dall’iconografia tradizionale! A farci scoprire che “Dio è giovane” è un uomo di ottant’anni suonati a cui facciamo fatica a stare dietro: papa Francesco. Lo fa rispondendo in un libro (Piemme, Milano 2018) alle domande di Thomas Leoncini e dimostrandoci che esistono persone che sanno “vedere” e altre che non sanno nemmeno guardare.
È proprio vero! L’età non conta per capire il cuore; soprattutto il cuore dei giovani perché «Il giovane va con due piedi come gli adulti, ma a differenza degli adulti che li tengono paralleli, ne ha sempre uno davanti all’altro, pronto per partire, per scattare. Sempre lanciato in avanti».
La marcia in più di questo Papa, quella che ci costringerà sempre a inseguirlo, sta nella sua capacità di vedere dentro al cuore delle persone e del mondo.
Il lettore si imbatte in un linguaggio totalmente lontano da quello dei documenti ufficiali; un linguaggio che non patisce della preoccupazione di una dottrina ineccepibile, ma – lasciandosi andare allo stile della conversazione – riesce a raccontare con semplicità cose profonde e per certi versi sorprendenti. Non perché nuove, ma perché c’è bisogno di qualcuno che ce le faccia capire. Come capita quando Francesco parla della forte connessione che c’è fra i giovani e gli anziani. Immaginando la vita come un dialogo continuo e fecondo fra le generazioni, egli afferma: «Giovani e anziani devono parlarsi e devono farlo sempre più spesso: questo è molto urgente!
E devono essere i vecchi tanto quanto i giovani a prendere l’iniziativa. C’è un passo della Bibbia (Gl 3, 1) che dice: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”».
Niente a che fare con chi pensa che i giovani vadano difesi a prescindere: questo è giovanilismo. Nella sua visione di dialogo tra generazioni, il Papa arriva addirittura a scavalcare una generazione, quella dei genitori, per invitare i giovani a cercare il legame con i nonni. L’avevo già sentito – a Cracovia, per esempio – e mi ero detto: lo sta facendo per mettere i ragazzi in contatto con persone che vivono la fede con maggiore convinzione. E invece no: attraverso la bellissima espressione del libro di Gioele, il Papa ci offre una visione di vita straordinaria: partire dagli scarti (giovani e anziani) per “tirar dentro”, in questo legame, gli adulti. Invitandoli a non sentirsi dispensati dal confronto col passato e dall’urgenza del futuro. Entrambi gravidi di esperienze e di attese.
Illuminante, e per certi versi spietata, la lettura che viene fatta degli adulti che non accettano la propria condizione e vogliono restare eternamente giovani. L’età della giovinezza, col suo vitalismo e la sua libertà, è diventata una condizione invidiata da tutti, divenuta anzi un ideale collettivo. Tutti oggi vogliono restare giovani e per il maggior tempo possibile: nessuno vuole invecchiare, perché la vecchiaia è percepita come una “malattia” o un fastidio, un ingombro dal quale stare ben lontani. Oltretutto gli stessi valori sociali si orientano inseguendo le predilezioni delle giovani generazioni, osservate come miniere di quella novità che è diventata un valore assoluto. Così l’intera società anziché guidare i giovani, li ha fatti diventare le proprie guide alla ricerca continua del nuovo, in un circolo vizioso in cui tutti perdono l’orientamento. «Troppo spesso ci sono adulti – afferma il Papa – che giocano a fare i ragazzini, che sentono la necessità di mettersi al livello dell’adolescente, ma non capiscono che è un inganno».
Affinché il desiderio degli adulti di parlare dei giovani non risulti una pretesa inappropriata, i grandi dovrebbero confessare apertamente la responsabilità di aver consegnato alle nuove generazioni un mondo non proprio all’altezza delle attese e delle speranze che le stesse nuove generazioni meriterebbero. Per esempio, quando hanno loro preparato un futuro all’insegna del facile consumo, della chiacchiera, della ricerca ossessiva del potere e del primato economico-finanziario. Anche la Chiesa ha le sue responsabilità, quando non è riuscita a consegnare una religione più affascinante, come lo è il Vangelo, magari anche per la testimonianza poco coerente di alcuni che hanno riempito le cronache recenti.
È disarmante leggere le riflessioni che fa il Papa. Una volta di più ci rendiamo conto di quanto tutti – Chiesa compresa – rischiamo di arrotolarci su noi stessi quando ci lasciamo imprigionare da beghe dottrinali, quando ci concentriamo esclusivamente per rifare l’elenco dei valori “non negoziabili” come se si stessero riscrivendo le tavole di Mosè, oppure quando la burocrazia tiene lontano dalla vita della gente. L’alternativa, per chiunque abbia responsabilità di guida e di governo, sta nel rimanere continuamente con il cuore e l’orecchio tesi alle storie di vita e di morte delle persone. Il famoso “odore delle pecore” non è populismo a buon mercato che dà una leggera passata di vernice alle proprie parole e azioni. È il patire dentro e accanto alla vita di tutti: un esercizio nel quale anche molti uomini di Chiesa hanno perso la fiducia, pensando che i grandi problemi del mondo si capiscono leggendo molti giornali o partecipando a interminabili convegni. In realtà solo lo sguardo sulla vita del mondo istruisce il cuore e dà la capacità di “vedere”.
NUNZIO GALANTINO
Fonte
Il Sole 24 Ore – COMMENTI E INCHIESTE / Testimonianze dai confini – 21 aprile 2018