Guerre dimenticate ma drammaticamente in atto, agguati infiniti e vittime di violenza premeditata. Ma anche giochi di potere che sembrano ignorare il valore della vita, anche quella di una sola persona, ricerca sempre più difficile di strade che portino a sanare ferite profonde, personali o sociali. Quelle che talvolta lasciano senza respiro. Eppure, in questo contesto, ho conosciuto persone che con la loro vita riescono a rendere grandi le cose piccole e permettono di non affogare. Dimostrano che ognuno di noi può contribuire a ritrovare la strada giusta e il gusto di vivere. A patto però di non allontanarsi troppo da se stessi e dalla propria intimità. A patto cioè di capire che il segreto della vita è nascosto solo in noi, semplicemente perché siamo noi quel segreto: è quel nocciolo di vita, di amore, di dolore racchiuso in noi e che ciascuno si porta nell’intimo.
In alcune persone che ho incontrato quel nocciolo si è come dilatato. Trasformandosi da nocciolo in frutto; riuscendo cioè a diventare quella materia prima di cui siamo plasmati grazie al lavoro di una vita. Soprattutto il lavoro fatto nei momenti in cui non sappiamo più chi siamo perché sepolti da bisogni e desideri fittizi, mossi da venti inaffidabili, agitati da passioni superficiali. Quando la nostra barca rischia di affondare, portata alla deriva in un oceano tanto più pericoloso perché sconosciuto.
Allora non resta che metterci silenziosamente in ascolto di noi stessi, guardarci dentro con occhi spalancati e cercare di afferrare quel nocciolo: solo tendendo l’orecchio ed affinando il nostro tatto saremo capaci di intendere quel po’di vita, di amore e di dolore deposto in noi. Ma c’è bisogno di silenzio, perché è una voce delicata e che a volte sembra muta, una presenza che dobbiamo imparare a decifrare tra le ombre e i fruscii che vogliono nasconderla o soffocarla. Sì, c’è un invisibile che ci nutre. Nascosto nell’osso c’è un midollo che porta cibo e nutrimento, che noi non vediamo ma che genera una linfa profonda e ci consente il respiro. Così in qualche nascondiglio del nostro cuore c’è un seme segreto, qualcosa che assomiglia a una promessa, dove si fonde il visibile con l’invisibile. È essenziale sentir fluire questa linfa, rimanere in contatto con quel midollo che ci rende capaci di vedere l’invisibile e toccare l’impalpabile, e di prendere finalmente il largo con le vele gonfiate dal vento.
Lo sto ricordando e lo vado meditando in questi giorni che precedono la Pasqua. Il Risorto porta con sé le sue ferite: Lui che ha sentito il brivido del germogliare di una carne intatta e nuova non ha rinunciato – come raccontano i Vangeli – a quel che di più prezioso aveva ricevuto, mani e piedi aperti, ferite da toccare increduli, per riconoscerlo. Mi piace pensare che anche le nostre cicatrici, quelle che portiamo sul corpo, ma soprattutto quelle del cuore, servano a identificarci, a farci riconoscere. Servono a distinguerci l’uno dall’altro, come ora ci distingue il colore degli occhi o dei capelli, la statura e la costituzione fisica, così le nostre ferite ci renderanno straordinariamente unici. E quindi preziosi.
Ma è anche vero che il dolore cambia il nostro modo di vedere la realtà, ci apre nuove prospettive, ci affida il “peso” diverso delle cose che avevamo vissuto prima che, bruscamente e senza permesso, quel dolore entrasse nelle nostre vite. Un peso e un colore che vanno all’essenziale, che virano verso la scarna sostanza della vita, ormai liberata dalle zavorre della superficialità. Ci riportano al midollo della vita, a quanto cioè abbiamo di più prezioso e bisognoso di protezione. Come un aratro il dolore scava dentro il nostro cuore, lasciando terra aperta e dolorante, costringendoci a guardare l’erba dalla parte delle radici. Da quel punto cioè da cui parte e si trasmette la vita.
Da alcune mamme e da alcuni papà ho imparato come si può imparare solo da chi ha attraversato il dolore. Si impara a sopravvivergli, si apprendono strategie per fare in modo che faccia un po’meno male, si riesce a schivarlo quando è necessario e ad abbracciarlo quando è altrettanto necessario. Ma soprattutto il dolore ti insegna una cosa difficile e per la quale non ti saresti mai sentito pronto: ad amare al buio. Ad amare anche quando la persona per la quale o il progetto al quale questo amore era destinato, non ci sono più, nell’azzardo di una speranza che ti fa sentire che quella persona o quel progetto ancora possono ricevere il tuo amore e ancora te ne possono regalare. Amare al buio, con il brivido e la paura di stare rischiando grosso, ma intuendo che è la sola cosa che puoi fare per raggiungere quel che hai perso. E diventa così un amore trasfigurato, che deve lentamente subire un passaggio di stato: da solido, concreto, materiale a invisibile, intangibile, etereo.
Eppure, come prima, vivo e reale. Un amore che, con il passare del tempo e dello sfinimento che ti fa assaggiare il dolore, si trasforma in dolce e succoso, distillato di essenze, denso e ricco come un balsamo. Maturato, come i frutti del gelso sotto al quale sostiamo.
NUNZIO GALANTINO
Fonte
Il Sole 24 Ore – Editoriali e commenti – 24 marzo 2018