Mons. Nunzio Galantino – La 194, i 40 anni e le domande che ci pone

443

La fisionomia della nostra epoca è segnata, tra l’altro, da una crescente difficoltà a riconoscerci in un comune sentire di fronte alla realtà.

Non si tratta di giungere a giudizi identici, ma di poter contare come condizione di partenza su una base di evidenze essenziali radicata nella coscienza collettiva. Se non ci unisce lo stesso alfabeto difficilmente riusciremo a intenderci su qualsiasi argomento. La nostra società presenta molteplici aree nelle quali si avverte in modo sempre più acuto l’esigenza di sentirsi dalla stessa parte, una fraternità sociale che va recuperata.

Di questa necessità basilare fa parte anche la considerazione nella quale teniamo la vita umana, per sua natura parte di quei princìpi essenziali che dovrebbero costituire le condizioni minime per cercare il bene di tutti, sapendosi distanti su molti fronti, ma uniti davanti a poche certezze che vanno sottratte alle divisioni. Se non sappiamo riconoscere la dignità di ogni vita, comunque si presenti ai nostri occhi, sarà difficile non solo intendersi su altri punti assai più complessi, e meno vistosamente condivisi (cosa c’è di più condiviso della stessa vita?), ma anche costruire una comunità civile capace di affrontare qualsiasi sfida.

La riflessione s’impone alla vigilia di un anniversario – i 40 anni della legge 194, entrata in vigore il 22 maggio 1978 – che ci riporta a un provvedimento parlamentare attorno al quale si accese un confronto capace come pochi altri nella storia recente di lacerare la comunità nazionale, tanto da restare tuttora vivo come se i fatti risalissero a ieri.

Colpisce che a distanza di un tempo invece ormai ragguardevole si assista ancora all’immediato schierarsi su fronti contrapposti quando riemerge il tema al centro di quella legge, come rispondendo a un impulso incontenibile: gli “abortisti” di qua e i “pro-life” di là. Una divisione che per qualcuno si risolve ancor più sbrigativamente evocando una linea di faglia tra laici e cattolici, categorie ormai inadeguate per capire cosa si muove dietro lo schermo di usurate polemiche. Dopo quarant’anni è forse il momento di dire che sull’aborto non si tratta più di schierarsi ma di osservare la realtà e lasciarla parlare, senza la pretesa di aver già capito e giudicato. Tentiamo allora di farlo, con umiltà, a partire da una domanda: cosa custodisce il grembo di una donna “in attesa”? E perché oggi anche più di quarant’anni fa sembra tanto difficile accogliere un figlio con la libertà e la gioia che un fatto simile chiede e dona? Non può essere ambizione di tutti l’obiettivo di ridurre gli aborti a zero, considerando ciascuno di essi come uno di troppo, una ferita intima per la donna che lo affronta, spesso costretta da pressioni ambientali, economiche e culturali, e ogni vita fermata là dov’era custodita e protetta come un bambino che mancherà a tutti? In quarant’anni gli aborti in Italia sono stati sei milioni, e la cifra così imponente – più grande della più grande città italiana – da sola deve far riflettere, anche alla luce del drammatico declino della natalità. La realtà parla, e non sarebbe saggio zittirla.

Ecco un terreno sul quale si gioca tutta la nostra umanità: se non sappiamo riconoscere tutti l’origine prima della nostra stessa esistenza, la vita umana al suo sorgere e nello sviluppo poi ininterrotto sino alla nascita e oltre, lungo il suo intero cammino, come la scienza ci ha dimostrato con innumerevoli prove in questi anni, su quali altre certezze potremo ritrovarci senza dover sempre radiografarci sospettosamente a vicenda? Attorno all’aborto si sono costruiti muri e fortificazioni, perdendo forse però di vista che al centro c’è l’origine che tutti ci accomuna. Ognuno di noi è frutto di un concepimento, una gravidanza, una nascita, di una pro-creazione che è il gesto più umano al quale si possa pensare e che nello stesso linguaggio, a indicarne l’insuperabile bellezza, evoca con potenza l’atto creatore di Dio chiamando in causa l’uomo – mai come in questo caso sua immagine – come indispensabile collaboratore e artefice.

Siamo tutti figli, un’idea che da sola dovrebbe indurci a un ascolto reciproco più attento e meno allarmato, cominciando dal saper capire cosa impedisce oggi a una donna e a un uomo di poter avere i figli che desiderano. L’inverno demografico che l’Istat in questi giorni ci ha nuovamente messo sotto gli occhi è la prova che la «tutela sociale della maternità» alla quale la 194 dedica i primi tre articoli anteponendola già nel titolo alla stessa «interruzione volontaria della gravidanza» è purtroppo rimasta largamente sulla carta, comprimendo il fondamentale diritto umano delle donne italiane di diventare madri.

Il «diritto alla procreazione cosciente e responsabile» che «lo Stato garantisce» sin dall’incipit della legge è un percorso che va ancora adeguatamente attrezzato, con iniziative all’altezza della sfida. Ma nulla sarà efficace se non potremo contare su una consapevolezza condivisa di fronte alla vita umana, un dato che ci supera e ci precede. Nel suo silenzioso bussare alla nostra porta chiedendo soltanto di essere riconosciuta e accolta per ciò che è difficile non scorgere come il primo di tutti i diritti.

NUNZIO GALANTINO

Fonte
Il Sole 24 Ore – COMMENTI E INCHIESTE / Testimonianze dai confini – 19 maggio 2018