Ho incrociato una persona nella mia vita: don Tonino Bello (1935-1993). Un uomo, un prete, un vescovo. Di quelli il cui ricordo e la cui vita tornano prepotentemente a galla in alcuni momenti della propria storia e di quella del tempo che si sta vivendo. Storia fatta di progetti che si realizzano e di eventi che ti sorprendono.
Alcuni legati a te e alle tue scelte, altri del tutto indipendenti da te. Sono questi i momenti in cui il ricordo, le parole e la vita di un “maestro” ti soccorrono, sostenendo le tue incertezze, rafforzando il tuo passo oppure fasciando qualche ferita imprevista, ma pur sempre dolorosa. Incertezze e ferite possono paralizzare oppure spingere alla ricerca di luce che illumini o che almeno indichi una direzione. Quella che ti porta al largo, liberandoti dalle strettoie di consuetudini che col loro peso frenano l’incedere, isteriliscono le relazioni e tolgono il sorriso che, in altri momenti e in condizioni diverse, comunica voglia di vivere e serenità d’animo nonostante le responsabilità che pesano sulle tue spalle.
È allora che una parola o un ricordo possono rimettere in cammino. Soprattutto se si tratta del ricordo di un uomo libero e con tanta voglia di saldare le parole con i fatti e la fede con la vita. Come ha fatto don Tonino indicando la strada per dare senso pieno alla vita.
Che senso, se non questo, hanno quelle sue parole: «Non dobbiamo più avere i segni del potere, ma il potere dei segni»? Una delle espressioni più fortunate e ricorrenti tra quelle pronunziate da don Tonino. E, come tutte le espressioni ricorrenti, anche questa, nonostante la sua forza, è esposta al rischio di perdere vigore ed entrare a far parte della retorica raffinata e comunque inconcludente e deresponsabilizzante. Parole che possono germogliare solo sul terreno di una vita segnata da scelte coerenti e concrete. Ecco ciò che dà potere ai segni, ecco ciò che costringe a fermarsi e non passare oltre, indifferenti: la coerenza. Quella di chi prende le distanze dalla retorica a buon mercato, dai luoghi comuni, dal politicamente corretto, dalla manìa di giustificare sempre tutto. La coerenza di chi prende le distanze dal gattopardesco «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
È ovvio che spendersi perché questo non accada porta dritto al martirio della fedeltà quotidiana al quale va aggiunta la fatica di farsi capire e accettare. A cominciare da “quelli di casa”, soprattutto quando le parole e le scelte turbano la tranquillità e mettono in discussione l’ingombrante presenza di segni del potere che possono entrare a far parte anche dell’arredo e della mentalità clericale. Forti e, oggi, più che mai attuali le parole pronunziate da don Tonino quel Giovedì santo del 1988: «È chiaro che non possiamo amoreggiare col potere. Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche solo col pretesto di aiutare la gente… Dovremmo rimanere amareggiati ogni volta che ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano. Che la nostra parola fa vincere un concorso».
I segni veri – quelli che coinvolgono senza schiacciare e che incidono senza mortificare, ma anche le parole, quelle destinate a esercitare un potere, quello giusto – sono frutto di conquista. Di quei segni, parafrasando Paul Ricoeur, si può dire: «I segni danno a pensare», interpellano, esigono scelte concrete e non diventano mai medaglie da appuntarsi orgogliosamente sul petto. Semmai per avanzare!
«Se noi potessimo risolvere tutti i problemi degli sfrattati, dei drogati, degli immigrati, i problemi di tutta questa povera gente, se potessimo risolvere i problemi dei disoccupati – ebbe a dire una volta – allora avremmo i segni del potere sulle spalle. Noi non abbiamo i segni del potere, però c’è rimasto il potere dei segni, il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce della società contemporanea, collocare dei segni vedendo i quali la gente deve capire verso quali traguardi stiamo andando e se non è il caso di operare qualche inversione di marcia: ecco il potere dei segni e i segni del potere».
Penso che il particolare momento che vive il nostro Paese consegni alla Chiesa un compito preciso. Essere, come affermava con efficacia don Tonino, “ala di riserva” e compagna di cammino dell’umanità. Non giudice di essa. Certo, una Chiesa che accetta di abbracciare il fratello, qualsiasi fratello, e aiutarlo a volare rischierà di commettere sbagli e di scegliere soluzioni sbagliate, oppure di parlare con un linguaggio esigente per la sensibilità prevalente. Sarà Chiesa a tratti scomoda, che rifiuta la logica del potere, di qualunque potere si tratti, per abbracciare la logica del servizio. «Una Chiesa chiusa – ha affermato papa Francesco – è ammalata. La Chiesa deve uscire verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano. Preferisco mille volte una Chiesa incidentata, piuttosto che chiusa e malata». Ma per fare questo c’è bisogno di coraggio. «Il coraggio – scriveva don Tonino – di impegnarsi con chi si impegna lealmente a rimuovere situazioni di violenza e di ingiustizia… Il coraggio che, senza darci le smanie del guerrigliero, ci abilita a non aver paura dei potenti della terra».
Su Il Sole 24 Ore – Editoriali e commenti – 17 marzo 2018, pag. 8 – Fonte