1. Da tre settimane ritorna nei testi biblici delle domeniche l’immagine/ simbolo della vigna presente nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Vale la pena allora dedicare qualche attenzione a questo richiamo caro ai profeti e a Gesù che ben l’utilizza in diverse sue parabole. La vite, una pianta che ben si adatta al clima della Palestina, è nella Bibbia simbolo di benessere, di fecondità e di benedizione; e ad essa si lega il vino, che è a sua volta simbolo di gioia, di festa nuziale e di alleanza. Non è allora difficile capire perché è così utilizzata. Nell’Antico Testamento indica il popolo d’Israele, curato e amato come piantagione preferita da Dio. Quando si mantiene ben curata, la sua vigna cresce rigogliosa e diviene il simbolo d’Israele che procede unito e fedele verso la Terra promessa, guidato dalla luce della parola di Dio.
Quando invece i profeti la presentano abbandonata, piena di rovi e distrutta appare chiaro il richiamo al giudizio divino che sradicherà dalla Terra promessa un popolo prediletto ma resosi inadempiente e infedele. Nella prima lettura di questa domenica incontriamo una delle pagine più belle al riguardo ed è il canto del profeta Isaia che ci introduce nella relazione tra Dio e il suo amore, cioè il popolo eletto. E’ il cosiddetto “cantico d’amore per la sua vigna” (Is 5,1-7), dove il Signore viene citato con parole di profonda tenerezza: il mio diletto, il mio amato (v. 1), termini che ritroviamo nel Cantico dei Cantici, un poema, anzi un gruppo di poemi d’amore, arricchito da dialoghi appassionati tra l’amata e l’innamorato con cori che risuonano di una lirica avvincente. Nel canto d’Isaia, che oggi possiamo meditare, è il Signore il proprietario e vignaiolo che si da con passione a piantare, curare e proteggere la sua vigna, dalla quale si aspetta i frutti dovuti.
Dio “l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino”. Ecco il progetto divino perfezionato nei dettagli: Egli vuole la nostra felicità e facendo appello a quanto di più tangibile c’era allora, mostra nella turgidezza di grappoli maturi la gioia e la fecondità dell’amore. Della vigna parlerà Gesù dopo l’ultima cena nel suo lungo e appassionante discorso/testamento con gli apostoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto…Rimanete in me e io in voi… Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv. 15,1-8).
- Pubblicità -
2. Siamo nel cenacolo nell’ombra tenebrosa del tradimento di Giuda, a poche ore dalla passione, crocifissione e morte e Gesù, nell’ora della massima intimità con i suoi discepoli, ma anche momento drammatico e pieno di tristezza, fa appello alla fedeltà richiamando i tanti inviti che proprio a partire dall’icona della vigna segnano le tappe della storia della salvezza. “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi,- assicura – chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. Se rimanete in me! Non è forse l’estremo tentativo di ridestare coscienze addormentate?
La risposta sarà il sonno degli apostoli, la consegna d’un traditore nelle mani degli uccisori, l’abbandono di tutti, il fallimento apparente di un progetto divino che sognava una vite feconda gonfia di grappoli maturi per la vendemmia. In cambio solo l’amara realtàche già echeggiava nelle parole del profeta Isaia: “Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi”. Dunque, contrariamente a ogni attesa e malgrado tanta cura, la vigna ha dato uva selvatica, “acini acerbi”, suscitando il dolore divino causato dall’amore ferito che porta come conseguenza la punizione.
Punizione che non è mai un rifiuto assoluto, bensì paziente azione pedagogica per ridestare nel cuore del suo popolo il pentimento e rinfuocare l’amore tradito. Dopo che ha offerto a tutti, ma proprio a tutti, compresi quelli dell’ultima ora, l’opportunità di lavorare nella sua vigna, come Gesù spiegava nella parabola di due domenica fa e, nonostante abbia meglio indicato domenica scorsa che non attende la nostra risposta al suo invito come un dovere da compiere ma come una replica d’amore a un dono d’amore, nella parabola odierna che l’evangelista Matteo ci offre in meditazione c’è l’amara constatazione d’un fallimento totale tra tristezza e delusione. Ma la speranza non muore! Infatti non si tratta d’un fallimento completo, ma di una vittoria rinviata.
3. Alla fine dell’odierna parabola c’è tuttavia una domanda che inquieta la nostra coscienza: “Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà di quei contadini?”. In altre parole, che sorte avranno coloro che bastonarono e addirittura uccisero i servi mandati una prima e una seconda volta dal proprietario a raccogliere i frutti al tempo dovuto? Veramente insensibile e crudele questa gente che non rispetta nemmeno il figlio del re al punto da prenderlo, cacciarlo fuori della vigna e addirittura ucciderlo. Non resta che farli morire miseramente e consegnare ad altri la vigna i quali, questa volta, “gli consegneranno i frutti a suo tempo”. Raccogliamo l’invito a meditare seriamente perché se grande è il dono ricevuto altrettanto gravida di responsabilità personale è la risposta che esso attende e che tocca a ciascuno. Gesù sta parlando ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo che eranodeterminati e chiusi a ogni sua predicazione. Non possiamo però dimenticare che queste sue parole producono un’eco profonda nella coscienza della Chiesa e di ogni credente. Nella vigna del Signore, cantiere sempre aperto, quale contributo stiamo offrendo e con quale consapevolezza?
Si tratta di un quesito esistenziale che vuole soprattutto suscitare il desiderio di una vera e decisa conversione, nella certezza che in qualsiasi momento è possibile ripartire perché nella la vigna di Dio c’è spazio e tempo sempre e per tutti. E’ innegabile tuttavia che nell’odierna parabola Gesù presenta il mistero dell’ostinazione del peccato sul quale pende inesorabile il giudizio divino. La salvezza non è uno scherzo e la misericordia non è un gioco di parole: è un mistero di amore che attende una risposta d’amore. Purtroppo la risposta può essere un rifiuto totale e la conseguenza è scegliere l’inferno cioè la morte per sempre lontani da Dio che è la Vita.
Tocca a noi, sacerdoti, diaconi e catechisti, chiamati a proclamare la verità del vangelo, il compito di invitare al coraggio della fedeltà offrendo come esempio la nostra testimonianza. Lo fa san Paolo nell’odierna lettera ai Filippesi: “Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica”, offrendoci lil modello di un annuncio del vangelo non teorico ma vissuto, e soprattutto personale senza compromessi. Siamo certi che tutti coloro che Dio chiama al servizio del suo popolo sono/siamo consapevoli di testimoniare con la vita quanto viene proclamato con le parole? Opportunamente all’inizio della messa oggi la liturgia ci fa pregare così: “Dio onnipotente ed eterno effondi su di noi la tua misericordia: perdona ciò che la coscienza teme e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare”.
4. C’è infatti una certezza che, malgrado i nostri peccati, sostiene lo sforzo della necessaria conversione; certezza che poggia su due solidi pilastri ben espressi dalle ultime parole di Gesù nell’odierno vangelo: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra angolare” e “a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”. La pietra scartata diventata pietra angolare descrive con un’immagine plastica l’intera storia della salvezza la cui vittoria definitiva si compie nei segreti dei cuori. Scriveva in proposito sant’Agostino che la Chiesa non può essere distrutta perché, “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio “(De civ. Dei, XVIII,51,2).
E Benedetto XVI in una delle sue ultime udienze ricordava che “l’apparente onnipotenza del maligno si scontra con la vera onnipotenza che è quella di Dio”. Quindi anche davanti a realtà confuse e drammatiche, mai smarrire la speranza perché “stat Crux dum volvitur orbis” : il mondo cambia e gli uomini possono impazzire, ma la Croce resta saldo punto di riferimento e alto segno della vittoria di Cristo. Il secondo solido pilastro su cui si radica la certezza della fede è che pur laddove la nostra risposta fosse infedele, l’Onnipotente realizza comunque il suo progetto d’amore che nulla e nessuno potrà mai arrestare, tanto meno distruggere. Da qui l’invito a tutti i cristiani a spendere la vita per il vangelo. Nel 1987, con l’esortazione post-sinodale Christifideles laici, san Giovanni Paolo II utilizzava il simbolo biblico della vigna, oltre che per la Chiesa, anche per indicare l’umanità chiamata ad entrare nel Regno di Dio.
«La vigna è pertanto il mondo intero (cfr. Mt 13, 38), che dev’essere trasformato secondo il disegno di Dio, in vista dell’avvento definitivo del Regno di Dio» (n.1). E’ chiaro allora che proprio per la ricchezza della propria simbologia la vite insieme ai tralci continuano nel tempo ad essere metafore di riferimento per i cristiani. Del resto l’allegoria della vite ricorreva già frequentemente nelle pitture delle catacombe e rappresentava talora il Redentore, altre volte l’Eucaristia ed era probabilmente il simbolo più antico che colpiva l’immaginazione dei primi cristiani non meno della parabola del buon Pastore. C’è di più: in ogni celebrazione eucaristica si rivive l’icona della vite e dei tralci nel sangue prezioso del Redentore invitando tutti al banchetto delle “nozze dell’Agnello”. Da non dimenticare però che per parteciparvi occorre presentarsi con l’abito nuziale come ci ricorderà il vangelo domenica prossima (Mt 22, 1-14)
AUTORE: Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito – Pagina Facebook – Sito Web