Mons. Giovanni D’Ercole – Commento al Vangelo del 30 Aprile 2023

485

Nel vangelo di questa IV domenica di Pasqua ( Gv 10, 1-10), Gesù dice: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore”. E aggiunge: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo”.  

Facendo ricorso a un’immagine abituale in quel tempo, Gesù paragona se stesso a un pastore – siamo abituati a definirlo il buon Pastore – e noi, cioè chi crede in lui e a lui si affida – siamo le pecore del suo gregge. Gesù è un pastore che conosce una ad una le sue pecore ed esse lo seguono. Sempre attingendo agli usi del tempo, si definisce poi la porta del recinto delle pecore. E’ difficile per la cultura del nostro secolo, ancor più per chi le pecore le vede solo disegnate o nei video, percepire la bellezza, la ricchezza spirituale e la profondità di questo messaggio evangelico. In effetti, quando capita di vedere pecore attraversare le nostre strade, sembra di assistere a un evento ormai raro e fuori dal nostro modo di vivere, e il pastore o guardiano delle pecore non è certamente il mestiere più desiderato dalle nuove generazioni, attratte e affascinate da ben altri miraggi di successo. Accettare inoltre di essere considerati come pecore e farne un modello nelle nostre relazioni sociali, non è facile da capire.

Dico subito che per me ascoltare da ragazzo questa pagina evangelica, sulla quale venivano tessute tante riflessioni spirituali, mi dava quasi fastidio perché sentirmi definire una pecora non era proprio il massimo dei miei desideri. Forse perché mi risuonavano in mente frasi del genere: “sii furbo perché se ti fai pecora gli altri ti mangiano” o “non siate pecore, anzi non fate i pecoroni” ripetevano a scuola gli educatori. Ma è proprio ridicola l’idea che Gesù si occupa di me come un pastore è attento a ciascuna delle sue pur numerose pecore? Cosa vuol dirci quando si definisce “la porta delle pecore”?  E ancora, a chi intendeva parlare usando queste immagini ben comprensibili allora e a chi si dirigono oggi le sue parole?  

San Giovanni, in tutti suoi scritti, fa ricorso costantemente a metafore e simboli, e spesso quello che afferma ha molteplici significati e può essere interpretato in diversi modi. La pericope del vangelo, che oggi la liturgia offre alla nostra meditazione, riveste almeno due livelli interpretativi, che lo stesso Giovanni definisce “similitudini”: Gesù è presentato come il pastore delle pecore; ma è anche interpretato come la porta delle pecore. San Giovanni Crisostomo scrive: «Quando Gesù si prende cura di noi, chiama se stesso pastore; quando ci conduce al padre, porta». Nella vita di Cristo, accanto alla figura del buon pastore, emerge forte quella tenera dell’agnello obbediente che si lascia sgozzare, morendo in croce per salvare l’intera umanità. Il Cristo crocifisso- risorto si presenta così come modello per ogni discepolo chiamato alla mansuetudine e all’umiltà, e la Croce di Gesù, che sul Calvario svetta quale glorioso vessillo di vittoria, è la vera Porta verso la salvezza. San Pietro scrive: “dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime” (1Pt 2,25). Pertanto, attraverso queste immagini, Gesù ci appare come colui che si prende cura di noi con la stessa passione di un pastore diligente, che non è un mercenario o addirittura un ladro.

Quando si visita un’azienda familiare di contadini, è possibile anche oggi costatare che la cura degli animali riveste un aspetto educativo molto importante: richiede sacrificio e collaborazione, abitua a uno stile di vita metodico ed esige tanta pazienza e capacità di adattamento alle loro esigenze. Insomma gli animali possono diventare nostri educatori nella misura in cui ci prendiamo fedele cura di loro. Quel che colpisce, in questi casi, è notare come i pastori conoscono per nome ogni pecora, capra ed altri animali e stabiliscono con essi una relazione affettiva, arrivando persino a vivere in simbiosi. Si capisce allora quel che Gesù dice: il pastore conosce per nome ogni pecora e le pecore riconoscono la sua stessa voce. Emerge cioè un modo intenso di vivere legami di collaborazione e solidarietà  al servizio degli altri.

Tra i ricordi degli anni di studio della teologia, mi è rimasta impressa nella memoria la pagina di un noto commentatore del vangelo di Giovanni, Beasly-Murray, il quale descriveva una scena tipica dell’ambiente degli allevatori del tempo di Gesù. Molti greggi si confondevano quando venivano portati per bere all’unica fonte. Quando però i pastori si separavano riprendendo ciascuno la propria strada, radunavano le pecore chiamandole ciascuno in modo differente: le pecore riconoscevano la propria guida e la seguivano senza sbagliarsi.  Si capisce allora la pazienza e la tenerezza con cui Gesù, facendo ricorso a questa parabola, vuole farci comprendere la cura e l’amore che nutre verso tutti gli uomini, non considerati come un branco anonimo, ma singole persone con cui tessere un dialogo vitale permanente.  

La sua attenzione è personalizzata e quando uno, come nella parabola della pecora perduta, si allontana dal recinto, egli è disposto a lascia tutto per ricercarlo fra boschi e monti finché non riesce a recuperarlo e riabbracciarlo. Grande è allora la gioia di ricondurre all’ovile del suo Regno chi s’era smarrito sui sentieri dell’errore e del peccato.  Quanta concreta e percepibile tenerezza in quest’immagine della sua divina misericordia, di un amore cioè che non conosce confini!  Non è difficile a questo punto percepire il messaggio: la Chiesa di Cristo è il recinto, noi siamo le pecore del suo gregge e Gesù è il nostro unico vero pastore. Egli continua nei secoli a farsi carico del suo gregge, che abbraccia tutta l’umanità, attraverso ogni suo discepolo che con il battesimo rende cooperatore dell’opera della salvezza. Tra tutti i battezzati sceglie poi alcuni come diretti collaboratori, che nel nostro linguaggio ecclesiale chiamiamo “pastori”, e li consacra per una missione che richiede la sua stessa fedeltà e la stessa disinteressata dedizione.

Meditando questa pagina evangelica, siamo dunque invitati a prendere coscienza della nostra comune vocazione e missione evangelizzatrice.  Siamo spinti in particolare a pregare perché la Chiesa sia la famiglia dei docili discepoli di Cristo. E non bisogna dimenticare che quando si è scelti come pastori, si resta discepoli possibilmente ardenti di zelo per le anime e innamorati del divino Maestro: basta infatti un santo prete, come san Giovanni Marie Vianney curato d’Ars, per cambiare un’intera comunità. Mi tornano in proposito in mente alcune parole dell’omelia d’inizio di pontificato di Benedetto XVI, il 24 aprile 2005. In quell’occasione egli parlava di se stesso, ma credo sia utile per tutti quanto ebbe a dire: “ Una delle caratteristiche fondamentali del pastore – affermò – deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova”. “Pasci le mie pecore”, dice Cristo a Pietro.

Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento”. E concludeva questa riflessione così: “Cari amici pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri.” 

Davanti alle sfide del mondo moderno, è importante per chiunque si dice cristiano, sentire vivo il bisogno quotidiano di pregare e di sostenere con docile adesione i propri pastori, oggi chiamati a un compito reso ancor più arduo e complesso. Preghiamo per i vescovi, per i preti e per quanti dedicano la vita al gregge di Cristo: mai venga meno in loro la totale coerenza con il vangelo, e, con il loro esempio di umili servitori della Verità e dell’Amore, sappiano aiutare il gregge affidato alle loro cure a restare fedele all’unico Pastore, Gesù.

AUTORE: Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito – Pagina FacebookSito Web
✝️ Commento al brano del Vangelo di: ✝ Gv 10,1-10