1.“Gesù disse loro un’altra parabola… Tutte queste cose disse alla moltitudine in parabole”. Dopo quella del seminatore e del seme sparso ovunque, che domenica scorsa la liturgia ci ha fatto meditare, in questa domenica ci vengono presentate altre parabole raccolte da Matteo nel capitolo tredicesimo del suo vangelo. L’evangelista ripete che questo è lo stile di Gesù il quale spiega il perché riallacciandosi alla tradizione ebraica, come recita salmista: “ascolta, popolo mio, il mio insegnamento; Io aprirò la mia bocca per proferir parabole, esporrò i misteri de’ tempi antichi.”(sal 78,2).
Gesù sa che non è ancora giunto il tempo per le chiare scoperte dei misteri legati al Regno dei cieli e per questo le sue parabole restano oscure alle folle, mentre lui le spiega in disparte a coloro che sono disposti ad accettarle. Con le parabole parla dunque di realtà spirituali comprensibili unicamente a chi é capace di percepire il mistero con il cuore illuminato dall’amore. Ecco perché tanti fanno fatica ad accettare il vangelo perché appunto le verità di Dio prima di essere comprese vanno accolte come dono d’amore gratuito di Dio.
Questa fu l’esperienza dell’apostolo Paolo che nella prima lettera ai Corinzi scrive: “La parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che sono salvati è potenza di Dio … Dov’è il saggio? Dov’è l’intellettuale? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo?” (1Cor 1,18.20). La parabola è in fondo uno stile che non si ferma al racconto e non soddisfa la curiosità intellettuale ma provoca l’interiorità del cuore. Come ben ricorda la favola del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, “si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Il modo di predicare di Cristo con parabole aiuta quindi ad attirare l’attenzione, e stimola la riflessione del cuore.
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2. Fermiamoci a riflettere sulla parabola della zizzania. Come in altre anche di questa si può dare una doppia chiave di lettura. Anzitutto invita a riflettere sulla presenza del male nel mondo, problema da sempre cruciale per l’umanità. Il seminatore getta il buon seme, poi mentre tutti dormono, il nemico semina la zizzania, una erbaccia infestante e invasiva. I servi chiedono perplessi: Signore, non hai seminato buon seme nel campo? Da dove viene la zizzania?.
Non è difficile riconoscere in questa domanda ciò che da sempre angustia la coscienza di tanti: se Dio è buono e misericordioso, perché non impedisce il male che invece esiste e talvolta sembra dominare? Se non Dio chi ne è la causa? Lapidaria la risposta del padrone: un nemico ha fatto questo. Il testo non si ferma a fornire molte spiegazioni logiche. Gesù accusa un nemico e lo riconosce come colui che rifiuta l’amore di Dio, il diavolo, e vuole guastare la sua opera; agisce nel buio e a tradimento rendendo schiavi quanti si lasciano attrarre dalle sue false promesse. Non è qui il caso di cercare una risposta a così grave problema esistenziale e persino angosciante che manifesta forme e maniere diverse: dolore e sofferenza, ingiustizie sociali e violenze, oppressione di innocenti e malattie inspiegabili e tanto altro. Queste domande sono grida di richieste di aiuto: Perché Dio non interviene, perché permette tutto questo?
Perché la sofferenza di bambini innocenti? Ogni risposta è insufficiente ed è audacia inutile pretendere di incolparne Dio. E’ meglio piuttosto fidarsi di lui e, pur nel buio delle prova, abbandonarsi con fiducia alla sua volontà. Entriamo così nel cuore della speranza cristiana che Benedetto XVI ha ampiamente illustrato sull’enciclica “Spe salvi”. “Il presente, anche un presente faticoso, – scrive il Papa – può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”. Perciò elemento distintivo dei cristiani è “il fatto che essi hanno un futuro: … sanno … che la loro vita non finisce nel vuoto”.
Il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova. Gesù ha portato l’incontro con il Dio vivente, l’incontro con una speranza più forte della sofferenza che può trasformare dal di dentro la vita e il mondo, una speranza che è insieme attesa e presenza: perché il fatto che questo futuro esiste, cambia il presente.
3. Torniamo al testo evangelico: ai discepoli che lo interrogano sul significato della parabola Gesù spiega che il campo è il mondo, il grano buono è stato lui a seminarlo e la zizzania è opera del nemico, il diavolo. Che fare? Ai servi che chiedono di poterla sradicare dice di non farlo perché sicuramente con la zizzania assai facilmente potrebbero eliminare anche tanto buon grano. La nostra attitudine sarebbe di intervenire prontamente eppure lui predica la pazienza dell’attesa del tempo giusto. Sicuramente il male lo vede e lo riconosce ma, invece di precipitarsi a eliminarlo, suggerisce di curare bene il buon grano cioè il bene.
Non serve nulla impiegare del tempo e delle energie per lamentarsi e inveire contro il tanto male che c’è attorno a noi perché continuerà a essere costantemente seminata l’erba dell’orgoglio e del peccato dal padrone di questo mondo. Il Signore domanda ai discepoli di non preoccuparsi del male, di non stare a guardare solo alla zizzania ma di occuparsi del bene cercando di riconoscere con gli occhi illuminati dalla fede il buon grano che continua a crescere. In altre parole c’è qui l’invito a essere evangelicamente ottimisti nella convinzione che alla fine il Bene trionferà sul Male.
E compito di ognuno di noi è coltivare il Bene che è in noi spesso nascosto agli occhi dei media, non lasciandosi impressionare dal male che invece occupa ampi spazi dei discorsi e delle informazioni quotidiane. In fondo è sempre vero che fa più rumore un albero che cade piuttosto della foresta che cresce silenziosamente. Da questa parabola ci viene l’invito al coraggio del bene, alla perseveranza nel cogliere dovunque i segni dell’amore di Dio; una sprone a nutrire la nostra mente e il cuore di buone notizie piuttosto che andare a caccia di scandali e lamentele, anche se lo spirito umano preferisce tendenzialmente ascoltare più le cose brutte che quelle belle.
Pur tra credenti non è raro cogliere una strana sete di messaggi apocalittici, di visioni catastrofiche, di fantastici scenari di distruzione: è vero che la zizzania continua a crescere, ma come cristiani non possiamo non ricordare che le decisioni determinanti della storia non sono nelle mani degli uomini, ma sempre in quelle ben sicure di Dio.
4. La parabola invita a portare l’attenzione su noi stessi e riconoscere il chiaro-scuro, l’insieme di bene e male che vi abita; esorta a vedere il positivo che è negli altri sapendo che anche la persona più malvagia può trasformarsi in coraggioso testimone del Bene. E’ avvenuto così lungo i secoli e la storia registra la conversione di tanti che uscendo dal tunnel del peccato hanno ritrovato la bellezza dell’amore di Dio. Diamoci pertanto a registrare i segni di rinnovamento presenti in noi e attorno a noi.
Questo ci aiuta a capire perché il padrone della parabola impedisce ai servi di sradicare la zizzania e Gesù con la sua stessa vita ha cercato di trasmettere l’arte della pazienza divina ai suoi discepoli. Lo ha fatto facendosi prossimo di pubblicani e peccatori che da erba infestante sono diventati alberi di bene; lo ha fatto accettando di salire sul calvario e morire in croce convertendo in punta di morte un condannato come lui. Appare ora ben chiaro che la potenza dell’amore di Dio non sradica la zizzania ma la trasforma in semi fruttiferi di santità: da peccatori a seguaci di Cristo, da persecutori a suoi apostoli fino al martirio.
Sono i miracoli della divina misericordia, il vero diserbante che non uccide l’uomo ma brucia in lui amandolo ogni macchia di egoismo e di violenza. La parabola non è pertanto un discorso parenetico e moralistico, ma è la rivelazione d’un preciso disegno di salvezza che c’incoraggia a lottare per il Bene, ci esorta a coltivare il percorso faticoso della conversione procedendo a piccoli passi verso la santità e tutta la vita è un cammino mai veramente compiuto. Mi ha colpito questa considerazione di padre Giovanni Vannucci, uno dei mistici del ‘900: «il nostro cuore è un pugno di terra, seminato di buon seme e assediato da erbacce; una zolla di terra dove intrecciano le loro radici, talvolta inestricabili, il bene e il male».
Ci sono germogli di vita assediati spesso da ombre tenebrose di paura e di morte. Talora si è presi da entusiasmo esaltante e in altri momenti il pessimismo prende il sopravvento sino a gettarci nella disperazione. Lasciamo che l’arte della pazienza divina distrugga in noi la pretesa del “tutto e subito” e c’insegni a vivere in mezzo alla zizzania, a santificarci dentro questo mondo e nelle concrete situazione della nostra quotidianità. E’ soltanto alla fine che il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli a raccogliere tutti gli operatori di iniquità e “li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro”.
AUTORE: Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito – Pagina Facebook – Sito Web