Non ciò che si fa, ma chi si è
Parabola che chiude una sezione del viaggio verso Gerusalemme (cf. 13,22-17,10), il cui contenuto si articola attorno all’amore di Dio e alle resistenze/ostacoli che l’uomo vi frappone. In una sintesi riassuntiva e in parallelo con la fede come un granellino di senapa di cui si parla subito prima, mi viene ricordato che modalità essenziale del non porre ostacoli è fare sapendo chi si è: dirsi (non solo pensarsi!) servi inutili, che prestano un servizio senza esoneri e senza aspettative particolari. Relativizzarsi è condizione e conseguenza di una fede sufficiente, per quanto piccola, a permettere al Signore di operare l’impossibile.
Basta poca fede; quella che si ha, basta sapersi servi, neppure particolarmente necessari, meglio ancora, poco utili!
La parabola è una chiarificazione di Gesù, carica di tutta la sua autorevolezza, che riporta all’oggi e alla piccolezza, all’umiltà dell’uomo discepolo, alla radicale povertà che il Signore stesso ha scelto ed è venuto a condividere, su cui si costruisce la salvezza del mondo: l’infinita piccolezza del credere e del fare come modalità e risposta al grande compito, nella vita e nel compimento: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27); “Si cingerà le vesti, li porrà a tavola e passando li servirà” (Lc 12,13).
La serena consapevolezza di noi stessi coincide con la massima vicinanza a Gesù. Per certi aspetti è la concretizzazione esistenziale di ciò che dice il Gesù in Mt 7,12: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti”. Ciò che desidero e mi aspetto dall’altro in modo scontato, diventi la regola del mio vivere! “Chi di voi, se ha un servo … anche voi dite: siamo servi inutili” (vv. 7.10). Senza dimenticare che è un insegnamento sull’essere servi, non sul Signore: non viene descritto come si comporta Dio, il riferimento non è lui ma un normalissimo padrone umano.
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In realtà il Signore non ci considera servi inutili da usare strumentalmente, ma amici amabili con cui condividere la propria intimità (cf. Gv 15,15). Ma resta la preoccupazione ben espressa da Bengel, filologo e teologo luterano del XVIII secolo: “Miserabile l’uomo che il Signore chiama servo inutile (cf. Mt 25,30) ma beato colui che così chiama sé stesso” (cit. in D. Attinger, Evangelo secondo Luca, Edizioni Qiqajon 2015, p. 460).
La piccolezza della fede e la piccolezza del fare sono da sperimentare non come accidente a cui trovare soluzione attraverso un intervento divino (“aumenta la nostra fede”) o con l’illusoria ipervalutazione del proprio agire, piena di aspettative e con la pretesa di un subito per diritto, bensì coniugando il proprio “ora” fattivo con l’attesa fiduciosa di un “dopo” per grazia.
L’invito non è a una svalutazione di ciò che si fa − non è su questo che c’è il giudizio dell’utile o inutile −, ma a un discernimento di chi si è: servi, dei quali inutile/ordinario è l’aggettivo qualificativo. Sono realtà di cui acquisire consapevolezza, per confessarle in primo luogo a sé stessi, e con cui convivere e scendere a patti. Questa rivelazione semplice, integrandosi con un atteggiamento esistenziale che scaturisce dalla conoscenza di sé e di chi è il Signore, determina poi il nostro modo di porci nella comunità, nella chiesa, nella compagnia degli uomini.
fratel Daniele
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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