Un altro, più profondo disegno
La scena si spegne già all’inizio. Qualcuno disturba Gesù che, ritiratosi in casa, vuole restare nell’anonimato: una donna, per giunta di cultura greca e pagana, la non riconosciuta per eccellenza. Intercede per la figlia. Gesù, però, la tratta duramente: “Non è bene” (v. 27). Se i figli di Israele sono i “figli”, gli altri, i pagani, sono dei “cani”, animali impuri per antonomasia. Il cibo dei figli non è riservato a loro. Il cerchio della violenza sembra chiudersi ancora, negando l’esistenza e la parola dell’altra.
Oggi no! L’imprevista rompe il soffitto di cristallo. Proprio lei, che non è “prevista” come soggetto di parola autonoma e libera nel codice culturale in cui Gesù è cresciuto, nelle parole di Gesù trova un varco che riapre un discorso che sembrava chiuso per comando divino. A lei non interessa discutere di teologia della salvezza. Alei importa di quella creatura umana che ha il volto della figlia che soffre. Importa creare un ponte fra quella situazione storica e la potenza di guarigione intuita in Gesù.
Che cosa succede quando l’imprevisto, l’escluso dal codice culturale che stabilisce chi ha diritto al riconoscimento e chi no, si rende presente e riconoscibile? Non si aggiunge il pezzo che mancava al puzzle, che resterebbe comunque intatto. Si disfa la composizione, tutto si mette in movimento e va cercato un altro disegno.
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Gesù, grazie alla donna che ha parlato bene, mette in discussione la propria comprensione della relazione fra Dio, Israele e le genti. Intuisce a un livello ancora più profondo il mistero di Dio, che “fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e gli ingiusti” (Mt 5,45). Proprio lei, donna e pagana, permette a Gesù di convertirsi al Dio per il quale vive. Lo fa presentando la situazione di una ragazza sofferente che chiede salvezza. È una domanda che sorge dalla storia. Lo fa non con una reazione simmetrica alla violenza insita nelle parole di Gesù, ma con una parola nonviolenta che dà un’altra interpretazione delle relazioni fra Dio, Israele e le genti. Una parola che disorienta Gesù e lo fa pensare, lo costringe a sconfinare da quei confini interiori che a volte sono più sbarrati di quelli esterni.
Quando quelle persone alle quali è sempre mancato il riconoscimento da parte di un’istituzione (dallo stato alle chiese, con tante mediazioni in mezzo) sono viste, quando le loro storie trovano ascolto, nulla può restare come prima. Non ci si può nascondere dietro la dottrina e la disciplina, perché erano proprio esse i fattori del mancato riconoscimento e della violenza. Vanno cambiate! Non ci si può non mettere in discussione come persone: Gesù conosce una crisi nell’intendere il suo modo di essere figlio di Israele, credente e maschio. Il primo a essere guarito e a cominciare un processo di liberazione è lui! Autoriflessione e critica del sistema vanno insieme. Così può svilupparsi un dialogo trasformativo.
Che cosa può accadere? Riprendendo e riscrivendo antiche mappature e concetti per aprire a nuovi spazi e pensieri con lo scopo di riconoscere nel loro vissuto coloro ai quali era negato il riconoscimento, è il futuro stesso a trovare un ponte di salvezza.
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fratel Davide
Per gentile concessione del Monastero di Bose
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