Perché si convertano
Il racconto della chiamata di Levi/Matteo è riferito da tutti i sinottici (Mt 9,9-13 ; Mc 2,14-17 ; Lc 5, 27-32) e in tutti si trova la pronta risposta dell’uomo seduto al banco delle imposte: si alzò e lo seguì; si levò – anastas letteralmente: “risorgendo” – si mise alla sequela di Gesù. Luca aggiunge alcune annotazioni rispetto agli altri evangelisti. Specifica che era “un pubblicano”, dice che “lasciando tutto” seguì Gesù, che per Gesù preparò un grande banchetto in casa sua, e, alla fine, esplicita il perché della chiamata dei peccatori da parte di Gesù: “perché si convertano”.
Luca ha già parlato di pubblicani, riferendo come alcuni di essi si fossero recati da Giovanni per ricevere il battesimo e chiedere come dovevano comportarsi. Giovanni aveva detto: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato” (Lc 3,12-13), indicando di astenersi dall’ingiustizia. Prima dell’entrata in Gerusalemme Luca presenta un altro pubblicano, anzi un capo dei pubblicani e un ricco. A Gerico, Gesù solleva gli occhi per incrociare lo sguardo di Zaccheo e la sua ricerca (Lc 19,1-10) e Zaccheo con gioia compie gesti di restituzione e di condivisione, mostrando di essere stato raggiunto dalla salvezza. C’è una speranza anche per i pubblicani, per i ricchi, per chi ha compiuto il male, come il malfattore crocifisso con Gesù, e questa speranza è legata alla conversione.
Gesù avvicina tutti, si rivolge ai malati e ai peccatori, ma per cambiare la loro condizione, perché si convertano. In Luca Gesù non inaugura la sua predicazione con un appello alla conversione (come in MT 4,17 e in Mc 1,15), ma vi ritorna ripetutamente, mettendo in guardia sulla necessità della conversione (10,13; 11,32; 13,3.5) parlando della gioia di Dio per un peccatore che si converte (15,7.10) e affidando agli apostoli come ultimo mandato la sua proclamazione: “saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (24,47).
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Nel linguaggio dei profeti risuona costantemente l’invito a tornare al Signore: “Se vuoi davvero ritornare, Israele, a me dovrai ritornare” (Ger 4,1) e il dramma dell’esilio è letto anche come un’opportunità per riconsiderare il proprio agire: “di là cercherai il Signore, tuo Dio, e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l’anima .. negli ultimi giorni tornerai al Signore, tuo Dio, e ascolterai la sua voce” (Dt 4,29-30). Con forza risuona anche l’invocazione fatta al Signore: “Ritorna a noi, Dio nostra salvezza” (Sal 85,5) e l’appello: “Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo, rinnova i nostri giorni come in antico (Lam 5,21). Il linguaggio usato indica l’osservanza della legge da parte dell’uomo e il non restare lontano da parte di Dio. Sembra che il concetto della conversione, il rivolgersi al Signore anche con un movimento interiore che coinvolge il cuore e tutta la persona, si sviluppi in periodo ellenistico. Esso diverrà fondamentale sia nel giudaismo che nel cristianesimo e sarà espresso con i termini di teshuvà e metanoia, parole che non si trovano nel testo ebraico e nella sua traduzione. La conversione rimanda all’esercizio della libertà umana, a una religiosità che implica l’adeguamento tra l’azione esterna e la realtà interiore, a un culto che sempre più trova il suo spazio nel santuario della persona umana, nell’offerta di un cuore unificato unito a mani innocenti e labbra senza inganno (Sal 24,4).
Luca dice che il pubblicano Levi alla parola di Gesù: “Seguimi” lascia tutto, risorge e si mette alla sequela di Gesù. La salvezza è abbandonare il peccato e camminare su vie di vita.
Sorella Raffaela
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