In casa, seduto a tavola, Gesù condivide un pasto con i suoi discepoli e con molti pubblicani e peccatori, mostrando che alla tavola da lui imbandita tutti sono benvenuti, perché a quella tavola sono invitati i meno degni di un invito a pranzo. Quello offerto da Gesù è infatti il banchetto della misericordia, è la festa della gioia del Padre per i suoi figli malati e peccatori, segno e anticipazione del banchetto del Regno (cf. Mt 9,10-13).
Una festa eterna che ha il suo inizio con il banchetto nuziale in cui si celebrano le nozze di Dio con l’umanità intera, senza esclusioni e senza privilegi. Il grande disegno dell’amore di Dio per tutta l’umanità trova qui la sua manifestazione puntuale nella tavola in cui Gesù incontra pubblicani e peccatori: lui, lo sposo, incontra l’umanità ferita dal peccato in un banchetto di nozze che suscita domande polemiche da parte di coloro che si ritenevano i primi a dover sedere a quel banchetto messianico.
Su questa tavola si affacciano ora anche i discepoli di Giovanni. Sono essi a fare una domanda sulla prassi del digiuno. Se l’obiezione precedente riguardava la qualità degli invitati, questa riguarda la qualità della fedeltà alla legge espressa nella pratica del digiuno: “Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?” (v. 14). Si ripresenta qui, rivolta ai discepoli, la stessa critica che era applicata ai due rispettivi maestri: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: ‘È indemoniato’. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: ‘Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori’” (Mt 11,18-19).
Gesù risponde alla domanda polemica rivoltagli concentrando l’attenzione non sulla pratica ma sul fine di questa, cioè la sua stessa persona, la sua identità di Messia. Gesù inaugura il tempo messianico, il tempo delle nozze, già annunciato dai profeti, che è tempo di gioia. I discepoli non digiunano perché Gesù è con loro, ma “verranno però giorni nei quali lo sposo sarà tolto e allora digiuneranno” (v. 15). Nel tempo che corre tra il momento in cui lo sposo viene tolto ed il suo ritorno – il tempo nostro, il tempo a noi contemporaneo, il tempo della chiesa –, il digiuno acquista un nuovo significato. Il digiuno non può avere più unicamente o principalmente il valore penitenziale datogli da Giovanni e dai suoi discepoli (cf. v. 14), ma ha il tono nuovo dell’attesa e della disponibilità all’incontro con il Signore Veniente. Il vuoto è, dunque, volontario e desiderato spazio di attesa per una presenza. Il vuoto è condizione del desiderio.
Nuovo e vecchio si precisano così alla luce di Gesù. Il vino e gli otri sono fatti nuovi da Gesù: il vino nuovo offerto da lui è riversato negli otri nuovi che siamo noi, suoi discepoli. Il tempo è fatto nuovo da Gesù: effervescente come vino giovane, forte e resistente come un panno di stoffa grezza. La legge stessa è fatta nuova da Gesù: la legge della gioia salda e robusta come quella tela grezza, la legge dell’amore che scaturisce da una pienezza traboccante come quel vino novello (cf. vv. 16-17).
fratel Matteo
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