Come Gesù, all’inizio del proprio ministero, aveva chiamato e costituito i Dodici “perché stessero con lui” (Mc 3,14), ora li raduna nuovamente per “mandarli” (v. 7). I due movimenti non si oppongono, sono invece complementari.
Nel contesto del nostro brano, comprendiamo che Gesù avverte la necessità di questo invio per lo stupore di fronte all’incredulità dei suoi conterranei di Nazareth (che conclude la pericope di ieri: cf. Mc 6,6). Associa allora chi lo accompagna al suo operare: la portata del messaggio ne potrà essere allargata e la ricezione favorita.
Nella trasmissione del fatto cristiano, una dimensione di estraneità è infatti necessaria. La parola del vangelo non si riduce a mera sapienza umana, immediatamente percepibile, che si potrebbe conoscere come si crede di conoscere un vicino di casa o un parente. È una parola che viene da altrove, che corre sempre il rischio di essere depotenziata dalle precomprensioni di chi l’accoglie. Deve allora passare attraverso mediazioni per essere trasmessa. Gli apostoli costituiscono questi mediatori: ricevono da Gesù l’insegnamento, lo condividono con lui, e cercano di farlo risuonare a nome suo, innanzitutto mettendolo in pratica loro stessi.
Per questo, si mettono in cammino a due a due, e non da soli: il loro annuncio non è innanzitutto trasmesso mediante le parole, ma dall’eloquenza del camminare insieme verso la stessa meta. Quella meta verso la quale, stando con Gesù, hanno visto tendere lui stesso.
Perché Gesù, in realtà, non trasmette ai suoi inviati delle parole da pronunciare, delle forme da applicare. Ma dà loro il suo “potere” (v. 7). Per i discepoli, la sfida consiste proprio nel rinunciare a rimanere legati alla persona del Maestro, alle mere parole o alle forme quasi magiche del suo fare, e nel lasciare invece che lo slancio di vita che anima sia lui sia loro agisca attraverso il loro operare.
Nel brano odierno, Gesù non dice agli apostoli cosa devono dire, ma come devono essere. Non insiste tanto sul messaggio quanto sullo stile. Li chiama alla sobrietà, affinché un bagaglio voluminoso non appesantisca la loro missione. Senza aiuto umano, i discepoli vivono come Gesù, con la sola fiducia nella forza ricevuta da chi li manda.
Inoltre, sono invitati a non fermarsi. Certo, la stabilità in un luogo è necessaria fino al termine della sosta; ma dopo, o in caso di non ricezione (come avviene per Gesù stesso a Nazareth), bisogna andarsene da quel luogo per un altrove nuovo.
Lì predicano la conversione, scacciano demoni, ungono e guariscono infermi (cf. v. 13). Sono le azioni che hanno visto fare da Gesù fin dall’inizio (cf. Mc 1,15). Non le hanno imparate attraverso un’istruzione scolastica, ma a contatto con lui. Questa è missione: non ripetere ingenuamente, ma andare a fare con responsabilità il bene che si è ricevuto e condiviso. I Dodici (e idealmente ogni cristiano) possono allora annunciare agli altri la conversione mostrando di essere loro stessi convertiti, perché sono e vivono come Gesù.
Sì, Gesù aveva chiamato i Dodici, “perché stessero con lui e per mandarli” (Mc 3,14): da lui hanno imparato un metodo, per applicarlo poi con autenticità e libertà, nella forza di colui che li invia.
fratel Matthias
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