Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 3 Ottobre 2022

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Fare o lasciar fare?

Ritroviamo oggi la famosa parabola del Samaritano, che solitamente chiamiamo del “buon Samaritano”; ma nel testo quest’aggettivo non c’è, perché si addice solo a Dio: “Perché mi chiami buono? – chiederà Gesù – Nessuno è buono, se non Dio solo” (Lc 18,19). Questo ci può già incitare a gettare uno sguardo realistico su noi stessi. La bontà nella quale l’essere umano è stato creato (cf. Gen 1,31) non è più in noi. Ne rimane la nostalgia, o meglio, la speranza.

Gesù dunque è interpellato da un dottore della legge, che non è affatto “buono”, giacché viene a tendergli un’insidia. Per vincerla Gesù non risponde direttamente a quell’inquisitore, ma lo interpella a sua volta. Non gli chiede solo: “Cosa sta scritto?”, ma aggiunge: “Come leggi?”. In modo simile aveva ammonito poco prima: “Guardate a come ascoltate!” (Lc 8,18). Questi “come” non rimandano a ciò che è scritto, inchiostro su pergamene, cioè a parole morte, bensì all’occhio e all’orecchio di quel legista, vale a dire alla relazione esistente tra lui e il testo, tra il suo cuore vivente e le parole morte. Potremmo forse parafrasare: “Come rendi viva la parola scritta e letta?”.

Mentre è venuto a tendere un tranello a Gesù, quel dottore della legge vive in realtà avvinto in lacci con i quali il Maligno lo tiene legato ed è in tutto simile al malcapitato della parabola caduto nelle mani dei briganti: è lui, l’inquisitore, l’anonimo percosso, spogliato e lasciato nudo e mezzo morto nel deserto! E dunque a ragione cerca una via di salvezza: “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”.

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La risposta alla domanda diventa allora evidente: non c’è nulla da “fare”, perché la vita eterna non è raggiungibile per gli esseri umani perché la salvezza non è cosa che l’uomo possa fare. Lo ha insegnato Gesù stesso (cf. Lc 18,26-27). Ma ciò non significa che rimanga spazio solo alla disperazione; anche il malcapitato della parabola non poteva fare nulla per salvarsi, ma per sua fortuna non sono passati accanto a lui solo uomini simili per molti aspetti al dottore della legge, si è avvicinato il “prossimo”, colui che gli si è reso prossimo, il Samaritano. Fu lui la sua salvezza.

Così per il “malcapitato” dottore della legge che si è avvicinato a Gesù per metterlo alla prova: colui al quale si è avvicinato per tentarlo si fa suo prossimo, proprio nel raccontargli questa parabola. È lui, Gesù, la sua salvezza – questa volta nel senso autenticamente teologico del termine –, se riconosce di non poter fare nulla e accetta di lasciar fare al Cristo. Se così leggerà la Scrittura e l’incontro che vive con Gesù, allora la vita eterna che desidera ereditare non sarà più solo l’oggetto di una speranza non priva di tanti dubbi, ma sarà quella vita nuova che avrà scoperto nel sentirsi amato da Gesù nonostante ciò che egli stesso è.

Ma ciò non vale solo per il dottore della legge. E se per una volta ci identificassimo non con qualche personaggio della parabola ma con il dottore della legge? Non è proprio vero che tante volte siamo tentati di mettere Gesù alla prova?

fratel Daniel

Per gentile concessione del Monastero di Bose

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